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I miei anni con Falcone e Borsellino di Giuseppe Ayala
“È bello morire per ciò in cui si crede: chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”: la frase di Paolo Borsellino da cui è significativamente tratto il titolo riassume perfettamente la vita di questi 2 grandi magistrati, incrollabilmente onesti e coerenti.
Giuseppe Ayala fu il loro più stretto collaboratore, a partire dalla costituzione del superpool all’interno della procura di Palermo fino a rappresentare l’accusa al maxiprocesso contro la mafia di fine anni ’80.
Lo stile scelto da Ayala è quello del racconto, condito da numerosi squarci sulla sua vita privata: questo libro infatti non è solo un doveroso ricordo dei suoi colleghi e amici Falcone e Borsellino, ma anche una maniera per Ayala di rispondere a tutte le malignità che i suoi avversari hanno continuamente insinuato sul suo conto e sulle loro iniziative in generale. Come scrive lui stesso: “Qualcuno ha scritto che, a 15 anni di distanza da quel tremendo 1992, Ayala ha pagato il torto di essere vivo”: questa frase condensa il dolore provato per tutte le umiliazioni che Ayala ha dovuto subire in dignitoso riserbo.
D’altronde, i grandi uomini hanno sempre molti nemici. Quando poi si vanno a toccare interessi di enorme portata, è ovvio che il minimo che ci si possa aspettare siano falsità e attacchi continui.
Forse Ayala, il miglior erede di quella grande esperienza civile che fu il maxiprocesso a Cosa Nostra, non avrebbe dovuto tacere e tenere gli occhi bassi, se il governo e la classe politica tutta avessero sostenuto lui (e anche Falcone e Borsellino, finché erano in tempo) o gli avessero riconosciuto tutti i meriti che gli spettavano. Il problema è che il supporto che lo Stato diede fu a tratti forte (durante il maxiprocesso vero e proprio, ad esempio), ma discontinuo: è Falcone stesso a dire che “Prima di tutto bisogna non essere soli…”, dopo l’omicidio di un mafioso, uno delle migliaia di omicidi che insanguinavano la Sicilia degli anni ’80. Soli come Dalla Chiesa, Ninni Cassarà, Rocco Chinnici e molti altri, che non devono essere dimenticati e che Ayala ricorda dalla prospettiva unica di chi è stato protagonista di quelle vicende.
Già alla fine degli anni ’80, la classe politica italiana cominciò a intuire il disastro imminente di Tangentopoli: non era certamente il clima adatto per permettere di scavare più a fondo in quel mare di omertà e collusioni che avrebbe sicuramente affrettato una fine comunque inevitabile. L’istinto alla sopravvivenza prevalse sulla volontà di squarciare il velo di ipocrisia, quasi impenetrabile, che nascondeva le collusioni con la mafia: un comportamento umanamente comprensibile, certo, ma che ebbe conseguenze di portata incalcolabile. Sarebbe stata forse l’ultima occasione di dimostrarsi classe politica seria e responsabile (sia a sinistra che a destra) e non fu colta. L’amarezza di Ayala nel vedere lo smantellamento della struttura investigativa e processuale faticosamente messa in piedi assieme agli altri magistrati della Commissione Antimafia è grande, tanto più vedendo che a questo di accompagnava l’emarginazione sua e di Falcone e Borsellino, specie da parte dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura.
A che gli domandava perché fosse stato l’unico a sopravvivere alla mafia, Ayala rispondeva: “Mi ha salvato l’ENEL”: risposta provocatoria ma non troppo ed indicativa del processo di isolamento ed esclusione che Falcone, Borsellino e Ayala dovettero subire una volta che l’attenzione dei media e soprattutto la protezione delle istituzioni svanirono. Il fatto che Ayala fosse deputato a gestire pratiche irrilevanti non fece scattare la fatale combinazione di cui parlava Della Chiesa: essere personaggi scomodi, pericolosi, e soprattutto essere isolati. Ayala fu “depotenziato”: dalle pagine in cui affiora la stanchezza di una vita continuamente in tensione, con la paura di essere uccisi da un momento all’altro, si potrebbe pensare che sia stata una scelta in parte volontaria. Io, francamente, non posso certo biasimarlo.
Falcone e Borsellino, per quanto sfiduciati e depressi dalla cappa di ostilità che li copriva, furono più tenaci. Le conseguenze sono note: 23 Maggio e 19 Luglio 1992, l’Italia perde gli avvocati che tutto il mondo ci invidiava (tanto per dare una misura di questa ammirazione, nella scuola della CIA fu eretta una statua a Falcone!).
Non ci si può certo illudere che un problema enorme come quello della mafia abbia soluzioni facili. Osservando le cifre e studiandone le cause, ci si può facilmente abbandonare a un cinismo senza speranza riguardo alle possibilità di successo della lotta contro la mafia. Prima di leggere questo libro, non ero certo lontano da un simile pessimismo: ora non posso comunque abbandonare uno sguardo disincantato, però sento il dovere di continuare la lotta, assolutamente giusta, per rendere onore alla memoria di questi grandi uomini.
Un libro che vale più di 1000 lezioni di educazione civica e di discorsi ufficiali: se non si vuole perdere la speranza, quasi obbligatorio.
Federico Faleschini
Federico.faleschini@sconfinare.net
Come una voragine la scomparsa dell’ex- presidente serbo Slobodan Milosevic (avvenuta l’11mazo scorso n.d.r.) ha catturato l’attenzione delle principali testate giornalistiche europee. Abbiamo appreso così le cause apparentemente naturali del decesso, il rammarico dei nostalgici e quello, forse maggiore degli inquisitori, i litigi riguardanti la sepoltura. Oltre la sua cronaca però l’evento spinge a focalizzare l’attenzione sulla regione balcanica e sull’istituzione del Tribunale Internazionale per i crimini in ex-Jugoslavia. In entrambi i casi è naturale chiedersi che cosa rappresenti la scomparsa del leader.
Per la Serbia essa potrebbe costituire un’occasione per affrontare la propria storia recente ed esorcizzare i demoni del passato, operazione tuttavia molto ardua. Oggi il Paese è attraversato da una divisione politica variegata tra progressisti e nazionalisti, con una leggera prevalenza della destra. L’attuale governo è infatti portavoce di un nazionalismo conservatore e tradizionalista amplificato dal risorgere della Chiesa Ortodossa. La religione non solo ha ritrovato il fervore popolare, ma si è inserita nel mondo politico, caricandolo di simboli e miti che, in spregio ad ogni laicità dello stato, hanno portato verso una “divinizzazione della nazione”. La possiamo riconoscere nell’atteggiamento serbo verso il Kosovo. La regione è infatti considerata la culla della nazione, sede di monasteri e luoghi sacri che hanno forgiato l’identità nazionale. Tuttavia esso è, ormai da un decennio, un corpo estraneo inaccessibile ai serbi non residenti e da altrettanto i luoghi di culto non sono più oggetto di visite e pellegrinaggi. L’indipendenza probabilmente permetterebbe un transito più agevole, riaprendo ai serbi il proprio patrimonio identitario senza minarne l’autenticità, ma “la religione politica della nazione” (secondo un’espressione di Ivan Colovic) cozza con queste considerazioni.
Non sorprende quindi lo scontro continuo tra i messaggi di commiato all’ex-presidente lasciati dai cittadini di Belgrado a radio B92, tra saluti affettuosi e addii velenosi, elogi ad un eroe e maledizioni per la mancata condanna di un criminale: è lo specchio di una Serbia divisa e brancolante. La morte di Milosevic potrebbe spingerla ad imboccare una direzione definitiva, ma i tempi non sono maturi. Scacciare i fantasmi del passato è difficile perché alla fine della guerra non è stato accusato l’intero popolo serbo; si è chiesto invece d’individuare dei singoli responsabili, soluzione certo opportuna, anzi ineccepibile, ma sposata alla difficoltà di definire nettamente criminali e non, liberando così un’ampia zona di contingenza (tra presunti carnefici, complici scampati, fiancheggiatori e sostenitori passivi) che naviga nella società serba rallentandone l’emancipazione dall’eredità delle guerre.
Infine un breve accenno alla situazione del Tribunale internazionale. Alcuni dicono che la morte di Milosevic l’abbia ucciso. Certo sarebbe stato meglio che tutto fosse accaduto dopo il raggiungimento di un verdetto. Ora infatti in mano a Carla Del Ponte e colleghi rimangono per lo più le critiche ai lunghi tempi di procedura. Non è certo questa la sede e non sono mie le competenze per discutere approfonditamente la questione. Vale solamente la pena di ricordare che alcuni criminali incriminati sono ancora in circolazione. Un’energica azione dei procuratori per spingere le autorità nazionali alla cattura e all’estradizione, potrebbe spegnere le polemiche. I protagonisti (procuratori, UE e governanti serbi) sembrano averlo capito: l’UE ha deciso di non sospendere i negoziati di associazione e stabilizzazione e in cambio la Serbia ha dichiarato il suo impegno nella cattura ed estradizione di Ratko Mladic, con toni tanto risoluti e precisi riguardo alle condizioni del ricercato da far pensare che egli abbia già un piede all’Aja. La convergenza d’interessi tra gli attori comunitari e governativi potrebbe dunque assicurare un altro criminale alla giustizia, risollevando le sorti del Tribunale Internazionale e il cammino della Serbia verso l’UE.
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