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Un terremoto minaccia di riversarsi sulla politica italiana. Sono tanti, a sentire loro; sono moderni; e soprattutto, sono arrabbiati. A fine settembre si sono trovati tutti insieme in un prato fuori Cesena, in quella che è stata presentata agli occhi del mondo come una nuova Woodstock. Ma tranquilli, dimenticatevi il glorioso mantra sesso-droga-rock’n’roll; la nuova Woodstock è consistita nel raduno del movimento 5 Stelle, capitanato da Beppe Grillo. Una due giorni di musica, arte e comizi, che ha portato su un prato di Cesena circa centomila persone, centomila “rivoluzionari”, come li ha chiamati Grillo. Questo raduno offre sicuramente degli spunti di riflessione interessanti, e porta a chiedersi: Grillo si pone a fustigatore della politica, e a rivoluzionario; ma cosa dobbiamo aspettarci veramente da lui in questo autunno caldo? E’ un genio politico pronto a portare qualcosa di innovativo, o un furbo impostore?
Per prima cosa, non si può negare che Grillo abbia puntato sul cavallo corretto. Egli, con la sua verve polemica da comico senza peli sulla lingua, ha saputo percepire e raccogliere le voci di antipolitica e di rinnovamento che da anni emergono dalla società italiana. Da un po’ di tempo, però, il movimento è entrato in una nuova fase; non contento di scagliarsi solo a parole contro il sistema politico tutto, proponendo il superamento dei partiti e dei privilegi, ora ha deciso di entrare nell’agone politico, ponendo come obiettivo legittimo e raggiungibile quello di ottenere 10 deputati alle prossime legislative. La contraddizione è evidente: il movimento va contro i partiti, ma vuole giocare sul loro stesso terreno. Non basta un nome, movimento, a non trasformare i grillini in partito; se partecipano alle elezioni, se il loro obiettivo diventa quello di avere deputati in parlamento, è necessario un certo passaggio ad una forma partito, se non altro per recrutare i candidati. Infatti, non si può dire che il PDL sia un organo strutturato e dotato di profondità di azione sul territorio; ma non si può affermare che queste sue caratteristiche non lo rendano un partito. Anzi, è un partito tanto meno democratico, quanto le decisioni riguardo al suo funzionamento sono prese solamente dal suo leader. Ora, vedo molto difficile che il Movimento 5 stelle non faccia la stessa fine, sottoposto alla scelta finale dei deputati da parte di Grillo. Perchè, se è vero che il comico assicura che la legge elettorale è una porcata e va modificata, come d’altronde buona parte delle persone dotate di intelletto sostengono da molto tempo, è altrettanto vero che per entrare in Parlamento bisogna giocare con le liste bloccate, e quindi Grillo può fare il buono e il cattivo tempo, proprio come uno qualsiasi dei vecchi politici criticati a Cesena.
Grillo però ha un grande merito: quello di sapere usare con maestria i mezzi di comunicazione contemporanei. Internet non ha più segreti per lui, e grazie alla rete riesce ad allargare sempre di più la sua schiera di seguaci insoddisfatti del sistema. Può essere questo visto come un uso dei media che porterà ad una maggiore democrazia? Non credo; vedo assai improbabile uno sviluppo di questo genere, perché comunque tutto il meccanismo fa capo al leader, che domina le idee del gruppo senza possibilità di contraddizione. Anzi, questa politica “diffusa” rende ancora più difficile mettere in discussione il leader, cioè Grillo, perchè la rete crea un pubblico amorfo, da cui pescare le teste più fedeli e lasciare perdere le altre.
Insomma, il movimento 5 stelle critica i meccanismi della politica, ma per veicolare il suo messaggio di critica ne utilizza gli stessi meccanismi, portandoli ad un nuovo livello. Grillo non è diverso, non è nuovo rispetto a Berlusconi; è semplicemente arrivato dopo, ne ha potuto studiare la bravura e gli sbagli e, ora che ha studiato, ne approfitta per ottenere gloria come novello Messia. Questo è dimostrato da un’ultima considerazione: in un momento in cui la vera opposizione al sistema politico attuale sarebbe spingere ad una riflessione precisa e preparata sulle vere priorità del Paese, Grillo si limita a criticare, ad urlare. Il programma del movimento esiste, e ad onor del vero ha anche proposte interessanti, in particolare sull’ambiente. Ma insieme ad esse sono presenti molte dichiarazioni generiche, populiste, simili,anche se di segno opposto, a quelle a cui ci ha ormai abituato la Lega. Questo non significa che poi, una volta nelle stanze del potere, i grillini non sappiano il fatto loro, e non prendano inziative degne di nota; basta pensare a David Borrelli, candidato governatore del movimento alle ultime regionali in Veneto, e consigliere comunale a Treviso. Ma quello che appare desolante è vedere come in realtà sia proprio a livello di comunicazione nulla cambi; Grillo dice di voler fare la rivoluzione, e di cambiare la politica, ma poi è il primo a rivolgersi alle grida e alla trivialità nel discorso politico. Invece, l’unica vera rivoluzione nella politica italiana di questi anni sarebbe portata da chi veramente smettesse di urlare e ci invitasse ad ascoltare, ad approfondire i problemi, ad affrontarli dopo esserci preparati bene su di essi. Di Woodstock ne abbiamo già tante, e si vede quanto male sono usate; ora è il tempo di tornare all’Opera, e di scoprire quanto bella può essere.
Ci sono parole che una persona elegante non pronuncia mai. Non mi riferisco al tradizionale turpiloquio, perché ritengo che certe affermazioni restino circoscritte a colui che le pronuncia, diminuendone soltanto la sua persona che, di solito, viene additata come volgare e maleducata. Il turpiloquio a cui faccio riferimento è una parola strana, non antica ma, neppure così moderna, un termine molto in voga soprattutto negli ultimi due secoli appena trascorsi e che, ad oggi, sta tornando ferocemente, seppur in forma diversa, di moda.
Chiaramente mi sto riferendo alla parola di dodici lettere che comincia per N e finisce per O. Se ne dovrà occupare chi, in redazione, vorrà titolare l’articolo, io non voglio pronunciarla di certo. Mi fa ancora troppa paura.
Ero a casa e, piacevolmente, osservavo la vivace vita goriziana sulla via sottostante, quando il mio sguardo è stato catturato dal massiccio e ricercato, almeno come doveva essere nei sui anni migliori, edificio del tribunale e, in lontananza, la sagoma scura, ma onnipresente del castello. Con una tazza di the in mano ho iniziato a divagare dolcemente coi miei pensieri. Non sono riuscito, come prescrive Schopenhauer a squarciare il Velo di Maya e, per forza di cose, ho ripiegato sulla realtà fenomenica. Cosa che, comunque, ha portato i suoi frutti: ho immaginato una triste Gorizia italianizzata e di epoca fascista e una, invece, più allegra, multiculturale e spensierata Görz austriaca o, lo dico con sofferenza, austro-ungarica, la Cacania di Musil, per intenderci (capitolo ottavo de “L’uomo senza qualità”). Ed è stato allora che, quella parola lì, che non voglio pronunciare, ha iniziato a martellarmi il cervello in modo ossessivo. Un vocabolo che è due volte insoffribile. Primo perché è un’invenzione, secondo perché, e sono certo che molti vorranno contraddirmi, è stata ed è tutt’ora fonte e causa di enormi problemi.
La prima colpa può sembrare revisionista ed approssimativa, ma vi assicuro che non è affatto così. Esiste qualcosa che fino all’Ottocento, cioè fino alla sua invenzione, abbia accomunato un bavarese ed un cittadino di Amburgo? Oppure, per restare nell’indigeno, un triestino ed un siciliano? La risposta è sicuramente negativa. Per chi ambisce citare lingue, tradizioni e cultura, posso prontamente rispondere che la parlata è sempre stata locale, mai comune per una più vasta compagine territoriale e molto spesso se ne è inventata una ad hoc, come in Boemia, l’odierna Repubblica Ceca, nei Paesi Scandinavi e via dicendo. A sostegno di questa tesi, voglio ricordare come tutte le alte sfere governative e sociali in Europa, fino al famigerato XIX secolo, abbiano sempre utilizzato una lingua franca come il latino o, successivamente, il francese. Quanto imponente e massiccio è stato lo sforzo e la pretesa dello Stato-nazione nell’imporre una comune parlata, Dio solo lo sa. Istruzione e, più tardi propaganda, hanno guidato i popoli verso un’identità socio-culturale creata a tavolino per loro stessi, e chi più tardi vi ci arriva, più difficile e più tortuoso gli si presenta il cammino alla meta. Questo processo è stato talmente irruento ed invadente da superare anche il catalizzatore religioso quale fonte di identificazione popolare, decretando la vittoria del verbo orale su credo e tradizioni.
La seconda colpa è altrettanto manifesta ed è, per necessità, collegata alla prima, il lemma, che non voglio pronunciare, ha ideato, creato e fomentato idee ed ideologie fautrici di conflitti e confini che mai prima nessuno aveva ipotizzato prendessero piede. Senza immergermi troppo nell’attuale e nel recente, di cui sono certo ogni lettore ha piena conoscenza e memoria, citerò solamente l’emblematico caso del tramonto imperiale e regio. Non un desiderio sentito e condiviso dalle popolazioni, quello della frammentazione asburgica, ma semmai una presa di posizione violenta, un diktat, posto da forze minoritarie capeggiate da miopi potenze straniere. Credo che i predicatori della sedizione in Boemia, in Galizia e in Croazia, i cechi Kramar e Klofac, il ruteno Markov, i croati Supilo e Trumbic, fossero solo delle figure isolate, con un ridottissimo appoggio popolare. Dopo il 1918, agli occhi del mondo, i popoli presero il potere, ma non ne erano pronti e la scena era già preparata per i dittatori.
Per questo rido, anzi sorrido quando leggo Langone e le sue poetiche dichiarazioni su immigrazione, cultura e nazionalità. Non mi piace quello che dice, ma adoro il come riesca sempre a proporlo al grande pubblico. Ho, invece, solo lacrime e indifferenza per altre voci e penne barbare, prive di contenuti e di stile.
Francesco Plazzotta
I dischi sofferti e difficili da capire sono i migliori. Un’opera d’arte che si rivela immediatamente è noiosa. Non resta. Come ogni cosa, un disco può essere amato sul serio solo se ci si sente a poco poco avvinti ad esso, quasi morbosamente. E diventa come una droga. All’inizio non lo si riesce ad ascoltare, però avvertiamo un certo suo chiamarci irresistibilmente. Continuiamo, con nostra meraviglia, a tendere l’orecchio. Quando riusciamo finalmente a sentire, allora la ricompensa è enorme.
Al mondo ci sono montagne di dischi buoni, palate di dischi ottimi. Pochissimi hanno però il coraggio di essere veramente ambiziosi. E l’ambizione, in arte, è tutto: perché la creazione è l’atto con cui l’uomo si fa divino, ricommette il peccato originale, mescola bene e male a suo piacimento, spesso confondendoli. 17 RE è il migliore disco nella storia del rock italiano, senza discussioni. Perché è il più ambizioso. 17 RE è degno della febbre d’un dio – è un disco folle, tremendo, capace nell’arco di pochissimi accordi d’innalzare un inno religioso dal fango. Cosa che nella storia è riuscita a pochi, forse soltanto a un Dostoevskji. 17 RE è un disperato, accorato atto d’amore per l’uomo, per l’umanità – un amore puro e senza compromessi, dolce quanto crudele.
Ogni brano del disco meriterebbe, qui, di essere raccontato. “Café, Mexcal e Rosita”
è una canzone d’amore volutamente ossessiva, perversa. Solo nella distruzione e nell’umiliazione dell’oggetto del proprio desiderio si ama, si possiede davvero. Ognuno uccide il suo amore: solo i più sensuali usano il coltello. Pelù è una bestia, la sua voce è un pulsare di versi gutturali, istintivi, sta prima della ragione. E’ per questo che i testi, seppur a tratti geniali, significano poco o nulla. Si limitano ad essere evocativi, comunicano per via empatica, non razionale: è un ottimo esempio di questo il mantra sciamanico di “Gira nel mio Cerchio”, la rabbia di “Cane” o di “Ferito”.
Sospeso tra febbre e rinascita, il capolavoro del disco è “Pierrot e la Luna”, un crescendo che sembra spaziare verso l’infinito, per un istante di più completo fondersi con il tutto, per esserci / non mancar più. Ogni cosa è finalmente riconciliata nell’oblio di sé, si riscatta in un’armonia superiore, indifferente ed eterna. La notte si fonde in un crescendo finale di luce, si commuove chi per un attimo riesce a guardarsi innocente e perfetto, di nuovo bambino nonostante tutto sia così rovinato in questo nostro mondo così carnale e volgare, ma qui non siamo più sulla terra, siamo sulla luna e da qui tutto appare sereno ed immacolato. Prestami la tua penna, Pierrot, fammi scrivere la quiete alla luce della tua luna. Come un frammento che cade lontano, raggiungere quell’ultimo annullamento cantato anche in “Resta” e “Re del Silenzio”. “Pierrot e la Luna” è una canzone per l’innocenza, il folle volo di voler conoscere, di tentare, pura gioia, nirvana. Non c’è nulla che non si possa prendere con le mani e fare nostro. Non c’è nulla che sia davvero distante da noi, se sapremo esserne all’altezza. E’ una sensazione che riempie, estatica, molte canzoni del disco: “Come un Dio”, “Febbre”, “Apapaia”, “Univers”, “Ballata”. E’ questa la chiave di lettura più completa di 17 RE, un disco sempre alla prima persona singolare, l’Unico Io: in 17 RE l’Io si afferma in tutta la sua straordinaria, meravigliosa purezza e non c’è spazio per nulla che sia diverso da me, perché in me ed in me soltanto si deve riflettere ogni cosa creata.
I Litfiba, in queste sedici canzoni, sono Classici: sono Latini, sono Greci. Illuminano millenni di cultura mediterranea in un solo disco. Non esistono, tra quelli che mi sia mai capitato di ascoltare, dischi che rifulgano di altrettanta ambizione. Gli stessi Litfiba la tradiranno, diventeranno qualcosa di ridicolo e di patetico rispetto alla bellezza della loro promessa iniziale. Ma in questo preciso momento, un attimo prima della loro decadenza, confusi dalle droghe, ridotti in pezzi, riescono a creare l’immagine di un uomo perfettamente in equilibrio col creato – microcosmo e macrocosmo si uniscono ed il risultato è l’Arte e con essa, in una parola sola, la libertà. L’Io è una cosa sola con ciò che gli sta attorno, lo possiede tanto nel bene che nel male. E’ forte, affilato, leggero. E danza.
Dopo gli esordi sul Bosforo, Ferzan Ozpetek si allontana per la prima volta dalla location Romana per l’ennesima commedia a tema omosessuale (il set salentino mi spinge a immaginare una sorta di omaggio preelettorale al presidente Nichi Vendola, ma forse è una malignità priva di fondamento).
Ambientato in una Lecce raggiante, Mine Vaganti racconta la storia di Tommaso (Riccardo Scamarcio), aspirante scrittore che torna in famiglia per dichiarare la propria omosessualità ma anticipato in questo dal fratello maggiore (Alessandro Preziosi) si ritrova costretto dagli eventi a seguire l’azienda di famiglia.
Rispetto al precedente Saturno Contro, Ozpetek ci presenta un racconto privo di connotazione politica. Non sono più all’ordine del giorno le battaglie per i diritti delle coppie di fatto alle quali si accennava nel film del 2008 e che per qualche tempo hanno infiammato di polemiche giornali e talk show. Se i temi principali in Saturno Contro o Le Fate Ignoranti erano l’amicizia, la convivenza e le relazioni, con Mine Vaganti si passa alla famiglia, “l’unica cosa più difficile dell’amore”, come recita il motto del film.
Sono proprio i membri di una famiglia fin troppo retrograda le mine vaganti del titolo, che si muovono ansiose e smarrite non riuscendo ad accettare l’improvviso coming out del primogenito:
Una variegata parentela tra cui si distinguono, un po’ tipizzati, il padre padrone (Ennio Fantastichini), la madre ingenua (Lunetta Savino), una zia alcolica (Elena Sofia Ricci), un cognato logorroico e, avvolta dai ricordi, una nonna bellissima e profonda ( la straordinaria Ilaria Occhini).
Il ritorno a casa porta Tommaso, che ha sempre mentito ai suoi sugli studi e sulle sue aspirazioni, a trasformarsi per un momento nel ragazzo che gli altri si aspettano sia. Nel pastificio che si trova a gestire in compagnia della bellissima Alba (Nicole Grimaudo), riaffiorano i legami e gli affetti sopiti dalla lontananza, portando Tommaso a confrontarsi con il passato, la sua terra, le sue tradizioni, e con i legami dai quali non può prescindere.
Tanta incomprensione per la natura dei figli appare senza dubbio un po’ irreale nel contesto alto borghese che viene proposto, ma l’incomunicabilità di cui sono vittime le mine vaganti è giustificata dal quadro di una famiglia ancora allargata e patriarcale.
Tra elementi ormai caratteristici (le bellissime riprese a tavola) e una colonna sonora – al solito – malinconica e retrò, Ozpetek riesce ancora una volta nel realizzare esattamente quello che il suo pubblico ormai si aspetta: tanti sentimenti alleggeriti e costretti tra situazioni equivoche e ironia per due ore (scarse) in cui non ci si annoia, ma che anzi ci lasciano fuori dalla sala un po’ pensosi e intristiti.
Bellissima l’ambientazione: tra gli uliveti, le ville barocche, i torrioni sulla costa ionia e le stradine del centro, la fotografia fa senza dubbio un’opera gradita all’ente per il turismo locale presentandoci un Salento incantevole con immagini luminose e vivaci anche negli interni… ma perdonate il campanilismo.
Giacomo Manca
Caro Iggy Pop:
muoia Sansone, e tutti i Filistei. Cos’è, in questo paese tutti fanno i pagliacci ed io dovrei essere l’unico pirla che scrive un editoriale serio? Ci ho provato. Impossibile. Iniziavo e poi mi piantavo, e allora chissene, mandiamo tutto in vacca anche noi, parlatemi di tutto ma per favore: lasciate stare la politica.
Senti Iggy, ti dò io l’idea. L’età giusta per fare il Presidente ce l’hai. Dai, scendi in campo. Tre anni possono bastare per realizzare uno straccio di programma e convincere l’elettorato. Potresti essere perplesso, ma li hai visti gli altri? Se domani si candidasse una treccia d’aglio, la voterei. Arriverebbe come minimo al sette per cento (guardate Grillo, cos’è riuscito a fare). Qui ho già pronti spillette e striscioni. Ho già in testa i ministeri, mettiamo Bob Dylan alla Cultura, Guccini alle Pari Opportunità, alla Sanità Tom Waits, Bennato alle Infrastrutture. Agli Interni proporrei qualcuno di fidate simpatie repubblicane, credo che Emanuele Filiberto possa andar bene. Agli Esteri Bono, così finalmente l’Italia si preoccuperebbe dell’Africa! Ci sarebbe veramente da ridere. Lou Reed presidente della Repubblica. Ovviamente. In Lazio candidiamo Madonna, così i Vescovi non si lamentano. Devi pur fare qualche concessione, Iggy. E’ normale che siano antiabortisti: li vogliono tutti per loro.
Dovrai trovare qualche occupazione per la vecchiaia. Le giornate a Los Angeles possono essere così noiose. Mettiamo anche noi in cantiere le grandi riforme, sostituiamo il crocefisso con una foto dei Led Zeppelin e costruiamo un ponte da Terracina a Nuova York e due passanti per regolare il traffico tra Cormons e Gorizia, e poi lo facciamo anche noi il giuramento, ho qui una copia di “Sergent Pepper” ancora nel cellophan. Ci metto pure tutte le Escort che riesco a trovarti: dai Iggy, il rock è morto da un pezzo. E’ la politica il vero circo dei dementi ormai.
Rodolfo Toè
rodolfo.toè@sconfinare.net
Un nuovo rimedio contro la crisi
(in caso di controindicazioni, consultare un medico)
C’è chi ingrassa con la disoccupazione, e a farne le spese siamo noi. E’ già abbastanza difficile così: bisogna inventarsene un sacco, per cercare di sopravvivere a questa nostra epoca. L’ottica di pieno impiego, nella teoria liberista, si fonda sul postulato fondamentale che, in ultima istanza, ogni maschio può sempre arruolarsi ed ogni donna prostituirsi. Ultimamente anche la politica va per la maggiore e non è da escludere che in futuro siano molti i senza occupazione che decideranno di tentare una carriera in qualche partito. Perché no? Non ve l’hanno mai detto, ma con un po’ di flessibilità è abbastanza comprensibile.
Bisogna sapere cosa fare e cosa non fare ed ogni buon consiglio è bene accetto, di questi tempi. Da parte mia, credo proprio che possa essere un argomento utile da affrontare il ruolo che tra Gorizia e Trieste (in un’ottica nazionale ammetto di non saperne nulla) ricoprono le agenzie di lavoro interinale.
Una polemica, recentemente portata avanti dal sito Bora.la e dal blog di una giornalista del Piccolo, Elisa Russo, verte proprio sul ruolo delle agenzie interinali (per intenderci: Metis, Menpower, Umana, etc.), ruolo che definirei quantomeno ambiguo.
La mia esperienza personale, a questo proposito, è stata abbastanza esemplare. Per un paio di mesi, a cavallo tra novembre e gennaio, mi sono messo alla ricerca di un lavoro. Qualcosa giusto per tirare avanti, mica niente di difficile o di qualificato. Mi sarei accontentato di tutto, dal netturbino all’operaio, sono di poche aspirazioni io e, come ben si sa, i soldi non hanno odore (altro grande postulato fondamentale del capitalismo).
Sprezzando il mio impegno, tutti mi dicevano che a Gorizia non c’era lavoro – e questo nonostante il fatto, che avrete notato sicuramente, che gli annunci delle agenzie rimangono appesi per mesi interi in vetrina. A me, che intendevo solamente mantenermi, anche un posto come addetto allo scodellamento in una mensa scolastica sarebbe andato benissimo. Ho ventiquattro anni, una buona istruzione, sono mediamente stupido, mediamente di bella presenza (ho dieci dita, due occhi e una bocca), godo di buona salute: le vie del mondo mi dovrebbero essere (quasi) tutte aperte.
E invece no. Strano a dirsi ma, per quanto fossi diventato un habitué di tutte le agenzie di Gorizia, non c’era apparentemente incarico che potessi ricoprire. Anche quando mi offrivo di fare il pelapatate, mi sentivo rispondere che il mio profilo non era quello giusto, che non ero adatto a quel lavoro, che avevano già assunto qualcuno proprio stamattina (che caso!). E questo non soltanto a me. Insomma, mi pareva proprio che non volessero darmelo, il lavoro, nemmeno quando insistevo per avere un periodo di prova. Mi facevano compilare i loro assurdi ed interminabili curricula, i loro formulari, e mi rispedivano a casa. Non mi hanno mai richiamato.
La piccola polemica nata ultimamente mi ha permesso di fare un po’ di luce sulla faccenda, di vederci un po’ meglio e di mettervi in guardia contro questi giocatori delle tre carte. Le agenzie interinali non vi daranno lavoro, per cui è meglio che ve ne stiate alla larga. Quello che a loro interessa è avere quante più persone possibile iscritte nelle loro liste, in modo da ricevere fondi pubblici (regionali, ma soprattutto europei) che vengono commisurati, a quanto ho avuto modo di capire, in base al numero di disoccupati che esse dovrebbero teoricamente “impiegare”. Invece, se ne fregano bellamente. Stanno lì, a mangiarsi i nostri contributi, e non fanno nulla per migliorare la situazione. Tutto quello che fanno è prendere i vostri dati, inserirli nei loro tabulati in modo da intascare ancora più soldi. Per il resto, chi ne sa nulla. Intanto, loro se ne possono stare a posto e fingere di essere utili alla causa. Mi sembra importante condividere questa esperienza perché quante più persone ne saranno a conoscenza tanto meno loro potranno continuare a fare questo gioco. Siete ancora in tempo per starne a debita distanza. E se proprio ci foste cascati, come il sottoscritto, potete sempre andare lì e togliervi la soddisfazione di chiedere che il vostro curriculum sia cancellato. Contandogliene quattro, possibilmente.
Fonte: Limes online
Qualche settimana fa Mosca si risvegliava sconvolta da due bombe. Alcune donne musulmane, “fidanzate di Allah”, hanno fatto tremare la terra e ucciso 39 persone. Inadatte (e indegne) alla resistenza armata contro il governo russo combattuta nei boschi montagnosi del Caucaso, sono loro che i mariti spingono fino al cuore della Federazione. La donna diventa ordigno e passa facilmente inosservata nella cultura russa, che non è abituata a vedere il femminile come una minaccia.
Il Caucaso è una zona tanto ricca culturalmente quanto martoriata da guerre e povertà. Dietro ogni versante di montagna si nasconde una minoranza etnica, in un mosaico intricatissimo. All’inizio della sua storia il comunismo sovietico prometteva ai popoli di Russia l’autodeterminazione negata da secoli di imperialismo zarista. Ben presto però Mosca si accorse che ogni concessione alle “nazionalità” rappresentava un passo compiuto verso l’autodistruzione dell’URSS. In un clima di nazionalismi emergenti, ben pochi stavano ad ascoltare l’appello alla “Rivoluzione Mondiale”. Così nel corso dell’ultimo secolo è stata la forza a tentare di sovrapporre ad ogni particolarismo nazionale un unico modello di homo sovieticus capace di tenere insieme popoli diversissimi. Dalle migrazioni forzate di Stalin alla gestione ambigua di Gorbachev, nel mosaico caucasico si è consolidata una memoria storica fatta di scontri e oppressioni. Per non parlare della Russia democratica.
Putin sale sulla scena politica a cavallo del nuovo millennio come il risolutore dell’enigma caucasico. Porta un po’ d’ordine in una Russia rotta in mille pezzi, e lo fa con la violenza e la sospensione di ogni diritto per i ribelli caucasici. Le operazioni antiterroristiche si sono concluse solo l’anno scorso. Distrutta dalla guerra e isolata fra le montagne, per la regione al dramma storico si aggiunge una totale mancanza di prospettive di sviluppo. In certe regioni del Caucaso russo la disoccupazione raggiunge l’85 per cento. Il secondo pilastro della strategia putiniana è quindi quello di inviare fiumi di denaro (650 milioni di euro nel 2009) lasciandoli gestire, è il caso della Cecenia, ad un uomo forte, mafioso e a capo di milizie temibili, il leader paramilitare Ramzan Kadyrov.
La vita delle famiglie sospettate di collaborare con il terrorismo non è stata facile. Ci sono madri che hanno visto sparire tutti i loro figli, uno dopo l’altro. All’alba, un convoglio di auto blindate entra nel giardino sgommando, un gruppo di incappucciati totalmente anonimi entra armato in casa, rapisce un familiare e scompare. Nella disperazione di chi resta e che, quasi automaticamente, cade nelle braccia del terrorismo islamico indipendentista che infiamma in particolare le Repubbliche federate di Cabardino Balkaria, Ingushezia, Cecenia e Daghestan. Esprimere il proprio disagio mandando qualche donna a esplodere nella metropolitana di Mosca non è troppo difficile. Infilare una bomba umana in un circuito sotterraneo di quasi 300 kilometri e 180 stazioni è un gioco da ragazzi. La bomba è ancora più efficace se mette di fronte ai sopravvissuti che escono dalla metro il palazzo della Lubyanka, sede di quell’FSB che dovrebbe garantire la sicurezza a Mosca seminando il terrore nel Caucaso. È per questo che il presidente Medvedev non può che rispondere alla provocazione terrorista con le parole “Li prenderemo e li ammazzeremo tutti”. Una forza verbale che nasconde tuttavia qualche dubbio sul piano strategico.
In effetti si capisce sempre meno in quale misura la politica “antiterrorista” nel Caucaso faccia capo a Mosca o ai signori della guerra messi a capo delle province. Ultimamente infatti il vassallo Kadyrov di Cecenia è sempre più indisciplinato. Con il denaro che arriva da Mosca, crea nel centro di Groznyj un’illusione di benessere; ma soprattutto rafforza il suo potere e si rende sempre più indispensabile per il governo del suo feudo. È per questo che all’inizio di quest’anno Medvedev e Putin hanno compiuto di comune accordo un passo piuttosto nuovo rispetto alla loro precedente strategia, creando un’unica maxi-regione caucasica. Se il controllo amministrativo resta nelle mani dei potentati locali, la gestione dei fondi farà invece capo ad un unico “console”, rappresentante ufficiale del governo centrale. Per questo incarico è stato scelto un uomo “nuovo”, Aleksandr Khloponin: per la prima volta qualcuno senza un passato nei servizi segreti e che, al contrario, ha dato prova di buona amministrazione durante il suo incarico precedente in Siberia. Un disegno di lungo termine potrebbe così vedere le Repubbliche separatiste a maggioranza musulmana diluite con la regione a maggioranza russa di Stavropol in una nuova superprefettura (vedi carta).
Il futuro nel Caucaso russo dipenderà insomma da quale delle linee il governo vorrà seguire dopo gli attentati a Mosca: quella dell'”ammazziamoli tutti”, capace di trovare il sostegno dell’opinione pubblica russa ma inefficace nel lungo periodo, o quella più lungimirante della “buona amministrazione”. La scelta non è scontata.
Francesco Marchesano
francesco.marchesano@sconfinare.net
Alla fine di questo Aprile in Irlanda si ricordano gli avvenimenti della “Easter Rising”, o “sollevazione di Pasqua”, insurrezione antibritannica messa in atto nel 1916 da pochi volontari delusi dall’indipendentismo parlamentare. Capeggiati dal letterato Patrick Pearse(volgarizzazione di Pádraic Anraí Mac Piarais), questi coraggiosi condussero un’azione di occupazione dei punti cardine della città di Dublino; il loro esiguo numero non permise che una debole resistenza alla repressione dell’esercito di Sua Maestà, destinando inevitabilmente i capi al patibolo. Tuttavia, il valore simbolico superò di gran lunga l’utilità pratica immediata, ridando forza e convinzione alle forze indipendentiste irlandesi (più o meno organizzate, dai volontari in azioni violente ai nazionalisti del Sinn Féin) e precipitando gli eventi verso la guerra del 1919-21, terminata con la nascita dello Stato Libero d’Irlanda. Nei versi della sua poesia “Easter 1916” William Butler Yeats dipinge con dura schiettezza il ritratto degli insorti, ma anche la terribile bellezza dell’idea di libertà (Now and in time to be,//Wherever green is worn,//Are changed, changed utterly://A terrible beauty is born.)
Oggi però non è solo questa idea di passato glorioso che riporta alla nostra mente i verdi prati e le indomite genti d’Irlanda. Fitte ombre si sono stagliate sulle cronache che ci arrivano dal Nord, specialmente per quanto riguarda i casi di pedofilia all’interno del clero cattolico. Si tratta del “Rapporto Murphy”, l’indagine condotta dal governo irlandese e necessariamente finita sotto gli occhi dello stesso Benedetto XVI, il quale si è trovato davanti a una lunga torbida storia di abusi-dal 1975 al 2004- a carico di 46 sacerdoti della diocesi di Dublino. Storia ancora più grave a causa di insabbiamenti e coperture forniti dalle gerarchie locali e (almeno secondo i meno maliziosi) mai trapelate fino a Roma. Il Papa ha scritto una lettera, divulgata il 20 Marzo scorso, diretta alla Chiesa d’Irlanda: il cardinale Sean Brady, primate di questa comunità, l’ha letta durante una messa nella cattedrale di San Patrizio a Dublino, esprimendo il suo sostegno alle parole di Benedetto XVI ma senza fare riferimento alla possibilità di dare le dimissioni per il ruolo che lui stesso ebbe nel non denunciare alla polizia gli abusi sessuali commessi da un noto prete pedofilo negli anni ‘ 70. Inoltre, la formula “fermezza sul peccato ma indulgenza con i peccatori” non è piaciuta ai parenti delle vittime, riuniti in associazioni che ora premono sull’opinione pubblica per ottenere verità e richiamare la Chiesa alle proprie responsabilità. In aggiunta a tutto ciò, e se vogliamo anche come naturale conseguenza, si è riacutizzato negli ambiti dell’informazione di massa (ma si tratta di una tematica non completamente avulsa a correnti interne alla stessa Chiesa) il dibattito sul celibato sacerdotale. Il rapporto di questa prassi dalle origini travagliate(a partire dal IV secolo d.C.) e finalmente vincolante dal Concilio di Trento(1545-1563 d.C.) con le cause alla base di condotte devianti tenute all’interno delle mura di chiese, canoniche e oratori fa discutere gli esperti ed i filosofi “laici” con religiosi che si interessano di rito, storia, tradizioni e diritto della Chiesa. Parlare ancora della nascita e dell’opportunità del celibato è, per una Chiesa che con Benedetto XVI torna a puntare fortemente sulla propria identità, una fastidiosa battuta d’arresto: questo è infatti un argomento scomodo, specialmente quando a interessarsi di ciò sono i giovani, ovvero la linfa di cui la Chiesa di oggi ha bisogno per rinnovarsi e continuare a vivere. È scomodo anche quando se ne parla in un Paese che conosce molto bene, per trascorsi infinitamente dolorosi e travagliati, la realtà dei preti sposati (i pastori protestanti della Chiesa anglicana), e non ha timore a guardare in faccia la realtà, a fare confronti ed a porsi domande.
Così, la storia e la cronaca si intrecciano in questa primavera “calda” oggi così come lo era stata quasi un secolo fa, sui diversi versanti della politica e della società, che non sono mai separati e sempre si influenzano vicendevolmente, anche senza una volontà diretta. Alla stessa maniera, ciò che sembra attenere a un ambito meramente nazionale e quindi regionale o locale rivela poi capacità di influenza che trascendono questi limiti che gli si cuciono indebitamente addosso: l’indipendenza dell’Irlanda non fu solo una sconfitta dell’esercito inglese, ma una crepa significativa in un sistema che non ha potuto imporsi laddove (in tutto il mondo) erano forti le radici etniche, culturali e sociali, al di la del mero sfruttamento economico; parimenti, questo scandalo “irlandese” esplode sull’isola ma coinvolge persone e storie sparse su tutto il globo e richiama la coscienza (e, chissà, magari anche qualche intervento concreto) sui sistemi di potere e di informazione all’interno della Chiesa cattolica nella sua totalità internazionale. Due ferite bruciano sul corpo e nella mente dell’Irlanda, una terra che vive fieramente di storia, che ha ancora sulle mani la creta fresca con la quale si è plasmata eppure in testa un progetto d’identità antico e autorevole, come il profilo smussato ma forte dei suoi antichissimi rilievi. Il dolore di ieri non fa meno male solo perché è cessato, così come quello di oggi deve essere considerato, capito e curato per alleviarlo, ma non per dimenticare.
Davide Caregari
Benvenuti nella Marca, felice contrada ove solitamente alle comunali competono due liste: una leghista ed una civica (composta da fuorusciti della Lega). E’ il nostro concetto di alternanza.
Domenica ho votato pure io. Incredibile. Non starò qui a dirvi cosa o chi (tanto siete tutti gente sveglia), fatto sta che in tutto il mio comune solo altre trenta persone hanno espresso la mia stessa preferenza (dati del Ministero dell’Interno).
Non ho votato per così tanto tempo che, entrato nelle urne, non mi ricordavo come si facesse. Sono dovuto ritornar fuori e chiedere agli scrutinatori i requisiti formali d’un voto valido. Non me ne vergogno perché non credo nella “sacralità del voto”. La democrazia ed il voto per cui si prende in mano un fucile e ci si batte sulle barricate sono puri Ideali (e, tra parentesi, non è il sangue versato che rende più giusta un’ideologia, anche se a quanto pare si tende a dimenticarlo); si muore sempre per qualche Eldorado ma la realtà è molto più deprimente e nel suo nome non condannerò mai un astensionista. Se nessuno dei candidati rispecchia le nostre idee, l’atteggiamento più giusto è starsene a casa. E’, al contrario, proprio la logica del “male minore” che affossa la “democrazia”. E’ un atteggiamento, questo, degno del peggior qualunquismo. Oltre al fatto, poi, che accettare il “sacro diritto” del voto implica, inevitabilmente, che si ha il “sacro dovere” di obbedire al proprio governo: le due cose vanno di pari passo perché non si può incensare la democrazia con la mano destra e picchiarla con la sinistra quando ci disobbedisce (e purtroppo accade spesso).
Mi sono recato alle urne con coscienza pulita. Con orgoglio. Di più, con rabbia. Perché per la prima volta in vita mia il mio voto aveva un chiaro significato d’inappartenenza, e chi mi conosce bene sa quanto sangue io debba sputare insieme a questa frase: perché recentemente ho scoperto che il Veneto mi fa schifo. Non volevo votare, ma poi ho pensato che per me era una questione di personalissima dignità. Non l’ho fatto per l’Italia né per chissà quale programma. L’ho fatto solo per me. Per dirmi che io, con questo Veneto bottegaio, non voglio averci nulla a che spartire.
I Veneti (soprattutto i ventenni veneti). Piccole persone intrise di mediocrità bovara e di crassa ignoranza contrabbandata con il facile alibi di sapienza contadina, come se davvero il primo figlio di papà che arriva col Cheyenne fosse capace di distinguere l’uva bianca dall’uva nera (valla a coltivare, la terra, se proprio hai voglia di tornare alla natura, ed imparalo, il dialetto che vuoi difendere). Una terra che nel giro di due generazioni è passata dalla miseria all’opulenza senza mai riuscire a possedere nulla di quello che si trovava in mano; una terra che ha nostalgia – magari – di una Serenissima che a noi ci trattava come servi della gleba, a vergate; le villette recintate con telecamere e filo spinato, Eden privati, Suv e Sky sul tetto, ragazzi abbronzati e VI-RI-LI e le ragazze coi tacchi, sempre perfettamente truccate e perfettamente depilate, microcefali i primi ed oche le seconde, quando ci va di lusso, i cani veneti che in un mese si sbafano più soldi di quelli che io potrei destinare a me stesso, detesto tutti i motivi veneti che loro hanno per amare l’idea leghista, detesto la facilità con cui la loro sana fede cattolica si è tramutata in materialismo e in razzismo, detesto i Veneti. Sono tutti così piccoli e meschini, i Veneti, con la loro paura della Vita e la ricerca d’una patetica, definitiva sicurezza (la grandezza di un Uomo si misura nella sua capacità di accettare la morte, e nessuno in Veneto riesce più a pensarci, hanno tutti bisogno d’una fortezza qualsiasi perché lo sanno, che tanto non possono fermare i vermi).
Ecco perché sono andato a votare. Votare contro la Lega significa votare contro il Veneto, contro questa idea di Veneto perché è vero: la Lega vince perché ci rappresenta. Non solo politicamente, anche interiormente. E’ importante che comprendiate questo, i Veneti purtroppo sono Leghisti anche quando tentano di dimostrare il contrario perché la Lega si bilancia proprio sulle loro infime capacità spirituali. Si bilancia alla perfezione.
Ero solito difenderci. Contro chi mi diceva: voi Veneti, tutti razzisti – (e poi l’anatema, puntuale, Gentilini! Tu vieni dalla città di Gentilini!) Ma non serve. Avete ragione voi. E lo dico io. Non un terrone. Io, un Veneto. Anzi, un Trevigiano. Perché se è vero che “un libro non si giudica dalla copertina”, io dico che per anni di merda ne ho spalata tanta pur di trovare quelle quattro perle dimenticate da dio, e loro c’erano ma erano sempre abbandonate a loro stesse, pazze e stanche di andare per forza nel verso sbagliato, e tutte avevano bisogno, senza eccezioni, di protezione – e per trovarla hanno sempre dovuto andarsene. Per avere spazio. ‘Affanculo il Veneto. Io sono andato a votare per dire che qualcosa di diverso può esistere, punto e basta. Nessun voto utile. Non ho pensato il mio voto perché ho votato quello che ero. Non è cambiato nulla. Tranne per quelle trenta persone che ora sanno di esserci. Non sono forti e non lo sono mai state, non nel mio Veneto di sicuro. Ma almeno non sono più sole, per quanto ciò possa valere in giorni disgraziati come i nostri.
Rodolfo Toè
rodolfo.toè@sconfinare.net
Nell’ambito dei lavori interni alla NATO sulla definizione del nuovo Concetto Strategico si è svolto a Roma il 23 Novembre 2009 il Rome Atlantic Forum. La sessione italiana di presentazione e riflessione sui termini elaborati dalla rappresentanza italiana stessa sui quali questo concetto si fonderà ha visto la partecipazione di ambasciatori, ministri, ufficiali, accademici nonché membri del group of experts incaricati direttamente della sua definizione. Anche Gorizia si è resa partecipe con alcuni soci dello YATA che hanno avuto la possibilità di assistere ai lavori tenutisi presso il Ministero degli Affari Esteri.
L’idea di sviluppare un nuovo Concetto Strategico muove dalla necessità di evolvere le basi della Dichiarazione di Washington del 1999, inadatta nei termini a contrapporsi alle nuove sfide della sicurezza collettiva che l’Alleanza è chiamata ad affrontare; prima fra tutte, quella della minaccia asimmetrica. Assieme ad essa si affiancano target come la sicurezza energetica e quella marittima, il contrasto alla tratta dei migranti, del traffico di droga, della pirateria nonché l’ambito della cyberwarfare e della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Una ridefinizione delle sfide, anche in ambiti innovativi come la considerazione dell’importanza di tematiche globali e più proprie della contemporaneità come i cambiamenti climatici.
Dall’avvicendarsi degli interventi di illustri relatori alla tavola quadrata del MAE sono emersi alcuni concetti chiave fondanti l’idea della NATO come garante della sicurezza collettiva; in particolare tre nuclei principali: il rilancio del fondamentale rapporto transatlantico, che storicamente caratterizza l’organizzazione, i rapporti NATO-EU e lo sviluppo dei
partenariati
ed il dialogo con i paesi medio orientali sulle sponde del Mediterraneo. Al giorno d’oggi, l’Alleanza raggruppa 28 paesi membri e può contare sulle relazioni con altri 34 paesi attraverso la Partenrship for Peace, il Dialogo Mediterraneo e la Istanbul Cooperation Initiative; ricordando anche il NATO-Russia Council e le commissioni NATO-Ucraina e NATO-Georgia. Queste relazioni hanno di fatto proiettato l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord in una funzione di assistenza e cooperazione militare per perseguire obbiettivi comuni e garantire stabilità sia direttamente ai paesi membri, sia indirettamente su più ampia scala.
Per quanto riguarda i rapporti NATO-EU si riscontra una stabilità riaffermata dal completamento del rientro della Francia anche all’interno del comando militare integrato. Nonostante ciò permangono i punti interrogativi del rapporto tra competenze NATO e PESD; anche fra gli stati d’Europa che sono membri sia dell’Alleanza atlantica che dell’Ue non c’è infatti accordo: alcuni vorrebbero che le questioni di difesa e sicurezza si discutessero in ambito NATO altri ritengono che l’Ue non possa fare a meno di dotarsi di uno strumento militare autonomo. L’Alleanza andrebbe privilegiata per le operazioni militarmente più impegnative, mentre l’UE si manterrebbe sui così detti Petersberg tasks. In particolar modo si è puntata l’attenzione sulla problematica dell’unità europea e si è riscontrata una incapacità a condurre negoziazioni in modo coordinato e nel chiarire gli interessi comuni a gli europei.
Riguardo alle nuove sfide, si è discusso sul futuro della NATO e sulle sue competenze; c’è chi ci vede la necessità di garantire gli interessi fuori area cercando nuove collaborazioni secondo il binomio sviluppo e sicurezza ed altri che vorrebbero un ritorno alle origini limitandosi a mantenere il proprio carattere difensivo abbandonando il criterio di promozione democratica e le così dette non-article 5 operations. Certo è che le questioni che avvicinano la NATO alle problematiche globali sono molteplici, dall’Iran alla Cina, dal Medioriente all’Afghanistan per non parlare degli approvvigionamenti energetici e la stabilizzazione delle aree di crisi passando per un rinnovato rapporto con la Russia. Riguardo ad essa, l’ambasciatore russo ha insistito in particolar modo su come essa non intenda essere isolata e si dica pronta, dal partenariato, a sviluppare una collaborazione stabile. Il principio di porta aperta rimarrà e sicuramente le collaborazioni congiunte saranno favorite in un’ottica di interlocking institutions.
Ai temi geopolitici susseguirono quelli giuridici ed economici riguardo alla necessità di ridurre il deficit spending degli stati per favorire una collaborazione effettiva limitando l’effetto di quei membri più parchi nella determinazione della spesa per la difesa, definiti ironicamente come free riders. Una soluzione delineata sarebbe quella di orientare gli attori nazionali nel fornire determinate competenze specifiche e specializzate.
Concludendo, il Capo di Stato Maggiore Gen. Camporini ha sottolineato come questo nuovo Concetto Strategico debba essere come un continuum costantemente aggiornato per la sicurezza della nostra civiltà, improntato a risolvere su base di un approccio comprensivo quei problemi organizzativi che
rischiano di tradursi in serie difficoltà sul terreno.
Enrico Minardi
enrico.minardi@hotmail.it
La lectio magistralis del Ministro Frattini a Trieste
Trieste. La nostra generazione è davvero indifferente alla politica? Rassegnati o semplicemente disinformati? L’8 marzo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha tenuto una lezione all’Università di Trieste sul tema “Dai Balcani all’Afghanistan quali lezioni per la comunità internazionale?”.
Segno positivo: aula magna piena. Il Rettore Francesco Peroni ha accolto il titolare della Farnesina con un certo compiacimento “perché – ha dichiarato il Magnifico – la
missione dell’Università è creare una coscienza civile”. Obiettivo: esercizio del dialogo.
Inizia la conferenza. “Negli anni ’90 – ha dichiarato il ministro – la guerra nei Balcani segnò il fallimento della comunità internazionale e la necessità di guardare avanti. Dopo la fine del bipolarismo – ha proseguito Frattini – l’unico metodo di azione è il multilateralismo, nell’ottica di una nuova governance globale”.
Filo rosso di tutta la conferenza la questione dei Balcani Occidentali. “Per la stabilizzazione dell’area – ha detto l’Onorevole – l’ingresso nell’UE è prioritario”. Frattini ha lanciato due messaggi politici importanti alla Bosnia Erzegovina, a rischio ghetto e frammentazione dopo gli accordi di Dayton (1995) che hanno spaccato il paese in due entità: “presentarsi in maniera unitaria all’Ue e liberalizzazione del regime dei visti in area Schengen”. Secondo il ministro inoltre, la Croazia entro l’anno potrà firmare i negoziati per diventare membro effettivo nel 2011.
A parte un vago riconoscimento alla vocazione europea del Kosovo, si glissa elegantemente sulla spinosa questione.
Ciò che conta è che l’Europa sia la guida politica nella partita dei Balcani. E il titolare della Farnesina sembra puntare particolarmente su un successo: il vertice dell’Unione Europea sui Balcani – un’iniziativa italiana – che si terrà a giugno a Sarajevo. Al summit si intende invitare anche Russia e Stati Uniti. L’Italia insomma vuole giocare un ruolo di primo piano nella partita. La conferenza a Sarajevo, indetta dai ministri degli esteri UE, sembra l’unica piattaforma legittimata per discutere i destini dei Balcani Occidentali.
Si sa, un Ministro è pieno di impegni, una vita sempre di corsa. Dopo la lectio magistralis c’è spazio solo per poche domande. Ma la percezione è di una vaga disabitudine da parte dei giovani a far sentire la propria voce. Certo, difficile appassionarsi di politica in
Italia. Pigri o sfiduciati? Forse è solo colpa del poco esercizio.
Lorenza Masè
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