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Ad una settimana di distanza dalla stampa del nuovo numero, ecco apparire tutti i nuovi articoli anche sul sito di Sconfinare. A breve saranno anche scaricabili i pdf di tutte le pagine, e le immagini delle prima pagina, nelle rispettive sezioni.

Un saluto a tutti.

A presto

Diego

Commedia siciliana in tre atti

Prologo, la condanna
Nella tarda mattinata di sabato 26 gennaio si riunisce l’assemblea regionale siciliana, ordine del giorno: comunicazione urgente da parte del presidente della regione. Salvatore, Totò, Cuffaro prende la parola in un clima di grande nervosismo ed emozione e, in meno di dieci minuti comunica la decisione delle sue “dimissioni irrevocabili”. Il venerdì precedente il presidente era stato condannato a 5 anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici nel processo delle talpe nella DDA di Palermo. È stato riconosciuto colpevole di favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio. L’inchiesta era iniziata nel 2001, allora la DDA di Palermo stava indagando il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro avendo installato in casa sua delle microspie. Queste vengono scoperte e il piano salta. Inizia cosi il processo alle “talpe” che hanno fatto partire la soffiata. Le indagini portano al coinvolgimento di Domenico Miceli(incarcerato nel dicembre 2006), medico ed ex assessore comunale Udc(il partito del presidente), habitué del salotto del boss e definito “anello di congiunzione” tra Cuffaro e Guttadauro. Il giorno precedente la sentenza si erano riuniti in preghiera i fedelissimi del presidente nella parrocchia di santa Lucia a Palermo, Agrigento e Caltanissetta. Condannato per favoreggiamento ai mafiosi e non alla mafia Cuffaro si sente soddisfatto, riceve la solidarietà di tutto il suo partito e buona parte dei politici nazionali, organizza un rinfresco a base di cannoli a palazzo D’Orleans. Le reazioni più immediate arrivano da Rita Borsellino e da Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia: “Non c’è l’aggravante della mafia, ma la sentenza prova il favoreggiamento di Salvatore Cuffaro di singoli mafiosi come Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona, Vincenzo Greco, Michele Aiello (il “re della sanità privata siciliana”, accusato di essere socio del boss Bernardo Provenzano) e Domenico Miceli”.

Secondo atto, il terremoto
Ci si indigna in Sicilia in quei giorni, l’attenzione però si sposta rapidamente sul tonfo del governo per la piroetta di Mastella.“Si sono mangiati tutto, non cambieremo mai” fa la gente nei bar. Sconforto e rinuncia tra i bei palazzi di Palermo. Ed invece…ed invece a metà della terza settimana di gennaio Montezemolo fa una dichiarazione, suggerendo a Cuffaro le dimissioni. Contemporaneamente Prodi dimissionario riceve una sollecitazione dalla procura di Palermo che lo invita a rimuovere il condannato dal suo ruolo(rimuovendolo effettivamente il 30 gennaio). Il pomeriggio di venerdì 25 Cuffaro riceve la visita del presidente della provincia di Catania, Raffaele Lombardo leader degli autonomisti siciliani, ex Udc anche lui. Al termine dell’incontro telefona al presidente dell’assemblea dicendogli che ha da fare delle comunicazioni urgenti per il giorno successivo.

Ultimo atto, la caduta
Sabato 26 gennaio era stata organizzata una manifestazione da sindacati partiti ed associazioni di diverse passioni politiche, senza bandiere raccomandavano fino allo spasmo, per chiedere le dimissioni del presidente. Cuffaro si dimette e dopo poco a piazza Politeama la manifestazione diventa una festa. Le reazioni del mondo politico della Trinacria sono caute, si parla di atto dovuto, meglio tardi che mai. Nessuno si sbilancia sul dopo. Ed ecco il problema, la sfida che aspetta i siciliani da qui a tre mesi. Due anni fa una parte degli isolani, con gli studenti del Rita-express in testa, si era entusiasmata per la prospettiva che rappresentava la Borsellino. I risultati furono discreti ma non sufficienti per ostacolare Cuffaro che baldanzoso raccolse un milione e trecentomila preferenze personali. In questi anni il medico di Raffadali, avevo messo in piedi un sistema clientelare mescolando cattolicesimo e tradizioni siciliane coinvolgendo amici e parenti che rivedevano in lui l’immagine rassicurante del corpulento conservatore devoto alla Madonna che mette la coppola da Santoro, la cui porta dell’ufficio era sempre aperta per chi aveva bisogno di un favore o anche solo un consulto. Non granché per una regione che sembra, sentendo chi non c’è mai stato, solo e soltanto la culla della mafia, una regione che tenta di strapparsi dal viso la maschera di bigotta, superstiziosa e appunto mafiosa.

Dietro le quinte.
La situazione che si presenta adesso non è così entusiasmante. È sfumata la possibilità della candidatura di Ivan lo Bello, numero uno di Confindustria Sicilia. Il centrosinistra in questi anni, eccezion fatta per occasionali parentesi, ha badato di più a non farsi escludere, annullare dal sistema messo in piedi da Cuffaro o a sanare litigiosità interne, che a fare opposizione. Dopo un lungo braccio di ferro tra il Pd e la Sinistra ci si è intonati per il ticket Finocchiaro-Borsellino. Due donne ma, sopratutto due modi diversi di far politica. Gli amici di Beppe Grillo hanno presentato a sorpresa una loro lista con Sonia Alfano presidente, attivista e figlia di un giornalista siciliano vicino al Msi ucciso dalla mafia nel 1993. Inaspettata questa scelta, considerato che appena due anni prima la Alfano sosteneva Rita Borsellino. Adesso dice che destra e sinistra sono uguali e che bisogna cambiare.
Il centrodestra come un esercito senza il suo generale ha trovato ordine solo dopo l’intervento di Berlusconi. Dopo la tragicomica vicenda di Gianfranco Miccichè, che iniziò la campagna elettorale dal suo sito per poi ritirarsi, ci si è accordati sul nome del presidente della provincia di Catania. Raffaele Lombardo, l’amico di Totò, che condivide con lui la stessa storia politica, entrambi giovani rampanti nella vecchia Dc e figliocci dell’ex ministro Calogero Mannino, è il candidato unico del centrodestra. Sui giornali siciliani si legge di Lombardo come il gemello diverso di Cuffaro. Non una svolta insomma, un maquillage tutt’al più. D’altronde Cuffaro non lascia da perdente, sarà capolista al senato con l’Udc.
In palio per i vincitori delle elezioni c’è oltre la poltrona da governatore anche il ruolo di nuovo “padrone” di quell’ impero politico e di clientele che è stato costruito da Cuffaro in sette anni.
Oggi dopo decenni si raccolgono interamente i frutti delle gestioni personalistiche del potere e della gestione mafiosa della cosa pubblica. Sembra un meridione ancora più lontano dal resto d’Italia, come un’enclave che sente parlare della capitale solo dalla tv. Abbandonare la Sicilia vuol dire chiudere la porta più estrema dell’Italia nel mediterraneo, fallimentare anche in un’ottica di euroregione mediterranea. Quello siciliano è un processo di erosione interna che va avanti da decenni, si muove su due binari: limitare l’efficacia dello Stato e costringere gli abitanti a sudditanza o a scappare. Tra il 1997 e il 2004 sono partiti ogni anno 7000 persone tra studenti e lavoratori. In queste condizioni si va a votare per il ruolo più importante dell’isola. Stavolta, non è la prima, la Sicilia si trova ad un bivio: riconfermare lo stato attuale delle cose o cambiare, iniziare un nuovo corso, per quanto possa essere difficile anche solo da immaginare. Ma è necessario. L’alternativa è ricacciarsi sempre di più nel fosso scavato dai pregiudizi degli altri e dalla nostra(di noi siciliani) viltà.

Federico Nastasi

E’ una impresa ardua comporre un editoriale. Più difficile di quanto si pensi. Bisogna trovare il modo di riassumere, con poche parole, tutti gli avvenimenti e le attività che hanno portato alla stampa di un nuovo numero. E come fare a riassumere l’organizzazione, la preparazione e finalmente la produzione di un giornale come Sconfinare?
Sconfinare non è un giornale come tutti gli altri. E’ innanzitutto nato come novità, come innovazione rispetto al passato: “qualcuno” ormai un paio d’anni fa, si rese conto che tra le innumerevoli attività degli studenti a Gorizia, mancava “qualcosa” che potesse essere espressione e voce  di sentimenti e idee degli studenti stessi. Non esisteva nulla che potesse riunire, seppure simbolicamente, tutti gli studenti universitari presenti a Gorizia. Da sempre si è voluto distinguere lo studente dell’Università di Trieste, da quello dell’Università di Udine, coinvolgendo tutti, chi più chi meno, in stupide discussioni politiche, riflesso dei campanilismi presenti tra le due province del Friuli Venezia Giulia.
Sconfinare nasce con la voglia di poter rappresentare un banco di discussione, un punto di incontro degli studenti. Un luogo in cui poter dialogare della realtà cittadina e universitaria, criticarne gli aspetti negativi e esaltarne quelli positivi, per abbandonare i soliti luoghi comuni.
Ora, coloro che diedero alla luce il primo Sconfinare partecipano ancora a questa attività, ma sono lontani dalla realtà goriziana: rimangono presenti con i loro consigli frutto dell’esperienza maturata in questi primi due anni di attività. Ciò che mantiene in vita il giornale è la rinnovata volontà di continuare a dialogare con la realtà locale, dell’università e delle sue istituzioni, di Gorizia, della Regione, e anche degli scenari internazionali che quotidianamente riecheggiano nelle nostre giornate di studio.
Sono dunque anche i nuovi studenti che si interessano, che portano avanti nuove idee, che aiutano Sconfinare a sopravvivere e a rinnovarsi costantemente. Sono false quelle voci di coloro che vedono il giornale come “cassa di risonanza” di alcune istituzioni. Sconfinare è sempre stato, e sempre rimarrà, lontano da ogni coinvolgimento politico. Coloro che scrivono, esprimono liberamente le proprie idee e i propri sentimenti, volontariamente e senza costrizione alcuna! E’ accaduto più volte in passato che un articolo abbia incontrato pareri e convinzioni opposte. Io invito tutti a non tirarsi indietro, a scrivere ciò che pensa, a criticare e discutere posizioni diverse dalle sue: tutti possono farlo liberamente, non esiste nessuna censura a nessun livello! Potete contattare sempre e in ogni momento la redazione del giornale scrivendo una mail a sconfinare@gmail.com, visitando il sito http://www.sconfinare.net. E’ questa possibilità che fa la differenza in Sconfinare: la partecipazione di tutti voi.

Diego Pinna

“When the next President sneezes, will Europe catch a cold?”
L’opinione pubblica americana è ormai stanca dell’era Bush, ha voglia di voltare pagina, e in questo momento ci sentiamo tutti un po’ americani. Sono stati moltissimi gli eventi che hanno caratterizzato la sua presidenza, primi su tutti gli attentati dell’11 settembre. Non mi pare questo sia il luogo adatto per ricordarli tutti, ma sicuramente è il momento di discutere alcuni dei compiti che il nuovo presidente si troverà ad affrontare tra meno di un anno.
Con una campagna elettorale così lunga, così costosa, così spettacolare, le dichiarazioni fatte dai candidati sono innumerevoli e molto spesso contraddittorie. Così non viene premiato colui (o colei) che può vantare le più audaci promesse elettorali, ma colui (o colei) che sarà stato in grado, durante tutta la campagna, di aver sviluppato una politica realista e non contraddittoria. Ma non basta, sono anche i precedenti impegni politici del candidato a influire sulle possibilità di vittoria: così, ad esempio, tutti ricorderanno il voto a favore dell’intervento in Iraq della Clinton, al pari del repubblicano McCain, quasi sempre sostenitore delle politiche di Bush; così come tutti ricorderanno il voto contrario di Obama e la sua ostilità verso le “dumb wars”.
Nelle dichiarazioni riguardo le politiche economiche da intraprendere, in realtà, i candidati differiscono di poco: tutti riconoscono il pericolo di una recessione dell’economia americana, in parte causata da politiche poco responsabili dell’attuale amministrazione, in parte dalla recente crisi dei subprime, e dalla dipendenza del petrolio straniero, che in periodi come questo raggiunge i $100 al barile. Diviene così un “interesse nazionale” trovare vie alternative, per salvare l’America (e il mondo) da una pericolosa recessione.
Significativo è purtroppo il punto sulle politiche energetiche: il protocollo di Kyoto, firmato negli ultimi mesi di presidenza Clinton, è sempre stato visto dall’attuale amministrazione Bush, come un limite per l’espansione economica americana. Ciò che però prima era un ostacolo, può essere trasformato in una opportunità. E siccome proprio il petrolio è divenuto il grande freno per l’America, è divenuto interesse nazionale convertire l’economia dipendente da esso. Solo ora acquista veramente importanza una riduzione delle emissioni dei gas serra (riprendendo le volontarie iniziative già avviate localmente da alcuni grandi centri urbani, come Los Angeles, ecc.). È necessario così utilizzare i nuovissimi biocarburanti eco-sostenibili, che dovrebbero permettere la creazione ex-novo di almeno 5 milioni di posti di lavoro, secondo le stime della Clinton. Tutti i candidati si mostrano invece incerti riguardo un aumento di produzione di energia elettrica da centrali nucleari.
Indubbiamente i temi delle politiche energetiche impegnano buona parte dei discorsi dei candidati, ma sicuramente la politica internazionale resta il centro nevralgico della campagna. Le “minacce” per l’America dopo l’11 settembre sono ancora molte, e i candidati, almeno in questa fase elettorale, sembrano mantenere su alcuni temi una buona dose di neutralità e di disponibilità alla diplomazia.
In primo luogo, il programma nucleare Iraniano è ancora visto come una minaccia per gli Usa e per Israele. Ma non solo. L’Iran finanzierebbe e armerebbe le milizie che operano in Libano e a Gaza, Hezbollah e Hamas, per destabilizzare Israele e costringerlo a impopolari interventi militari. Inoltre gli Iraniani sono indicati come i responsabili degli attacchi contro le truppe americane presenti sul suolo iracheno. È dunque evidente che le politiche Mediorientali siano un argomento di rilevante importanza: tutti i candidati hanno espresso la loro volontà di continuare un dialogo diplomatico con l’Iran, attraverso le organizzazioni internazionali. Ma tutti mantengono come ultima risorsa, sul tavolo delle trattative, un’opzione militare contro il regime iraniano.
In secondo luogo, i Democratici sono inclini ad avviare una efficace exit strategy dal pantano Iraq, coinvolgendo sempre più truppe irachene. Il candidato repubblicano McCain è invece colui che mantiene una c.d. linea dura, ricordando quanto sia necessario l’impegno militare nell’area, per contrastare Al-Qaeda e prevenire nuovi attentati al suolo americano. “That’s fine with me. We’ve been in Japan for 60 years, we’ve been in South Korea for 50 years or so”.
Infine, i candidati si sono concentrati su diverse crisi internazionali, in base all’elettorato che vorrebbero coinvolgere: così Obama ha mostrato interesse riguardo la crisi in Darfur e il genocidio Armeno. Nel numero di Luglio-Agosto 2007 di Foreign Affairs, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di una politica lungimirante, nel periodo dopo la guerra con l’Iraq, insieme con la necessità di un rinnovamento dell’apparato militare e diplomatico americano, per ristabilire gli Stati Uniti come “guida morale del mondo”.
Tra le dichiarazioni di politica internazionale di Hilary Clinton, quella che spicca per la sua componente innovativa, riguarda le Nazioni Unite. La candidata Democratica ha espresso il desiderio di vedere, sotto la sua presidenza, un’organizzazione riformata e potenziata nelle sue capacità, con una comunità internazionale (Stati Uniti compresi?) più rispettosa nei confronti dell’Onu.
Infine, rileggendo le dichiarazioni del candidato repubblicano McCain, sembra spesso di dimenticare l’epoca in cui ci troviamo, e ritornare indietro di una ventina d’anni, con il pericolo sovietico sempre incombente sulle democrazie occidentali: è sempre stato uno dei maggiori critici al Senato dell’ex presidente russo Vladimir Putin “I looked into his eyes and saw three letters: a K, a G and a B”.
McCain possiede però un buon vantaggio rispetto ai due giovani candidati democratici: in quanto prigioniero di guerra in Vietnam, ha particolarmente a cuore la legislazione circa la detenzione e la tortura di prigionieri di guerra e terroristi. Sostiene fortemente la chiusura della base americana di Guantanamo, e la sottoposizione dei detenuti a regolari procedimenti giudiziari, preservandoli dal rischio di subire torture.

Diego Pinna

Mi è sembrato piuttosto ridicolo l’atteggiamento degli studenti e dei professori in occasione della (mancata) visita del Papa alla Sapienza. E non lo dico per difendere inutilmente il Papa; non è mia intenzione. Passi che il Papa sia considerato “avversario” da alcuni laici; questo è legittimo, visti alcuni comportamenti passati del Pontefice. Ma che questo diventi un odio cieco e violento, no. E invece, è proprio ciò che, a mio parere, è avvenuto. C’è stata, a mio avviso, una grave limitazione della libertà di parola, proprio da parte di coloro che di questa libertà si fanno promotori. Insomma, tutti possono parlare, tranne il Papa. Ma così facendo, essi si sono dimostrati più intransigenti e “bigotti” dell’istituzione che vogliono “combattere”. O forse, essi intendono dire, quando proclamano i loro slogan presi in prestito da Voltaire e da altri pensatori, “libertà di parola solo a chi la pensa come noi”. Altrimenti non si spiega il fatto che Toni Negri o altri ex brigatisti, ritenuti grandi intellettuali, siano accolti a braccia aperte, e un Papa che come qualità indubbia ha sicuramente quella di essere un fine intellettuale sia rifiutato. Non sto dicendo che gli ex- brigatisti non dovrebbero tenere conferenze, anzi; ma che si usano due pesi e due misure. Dovremmo prendere spunto dal fatto che Ahmadinejad ha parlato alla Columbia University. Ci sono state proteste, giustamente, ma non hanno bloccato l’organizzazione.
Io non sono contrario alle proteste, tutt’altro; sono anch’esse uno strumento per esporre il proprio pensiero. Ma devono essere civili; invece, in questo caso, gli studenti hanno dato prova di arroganza e di cecità. Sarebbe stato molto meglio per loro, se avessero voluto mostrarsi superiori, invitare il Papa ad una discussione aperta, lasciarlo parlare, e poi fargli domande od osservazioni. Allora sì avrebbero mostrato la superiorità del pensiero “libero” e “laico” contro l’oscurantismo del Vaticano. Allora sì sarebbero stati liberali e tolleranti, condizione necessaria nel mondo contemporaneo. Invece così si sono dati la zappa sui piedi in due modi: per prima cosa, si sono dimostrati infantili e intolleranti di fronte a tutti, e in secondo luogo hanno dato buon gioco al Papa. Gli hanno permesso di essere visto dall’opinione pubblica come vittima; gli hanno fatto pubblicità gratis.
Quella dei professori e degli studenti non è laicità; è intolleranza e volgarità. La laicità è ben altro; basta pensare al già citato Voltaire, ma anche a Pasolini, a Camus, e a molti altri.  Se quelli che abbiamo visto alla Sapienza sono i rappresentanti del pensiero laico, allora non c’è da stupirsi del ritorno della religione. Ma, fortunatamente, non sono questi. Essi sono solo una minoranza. E proprio questo è un dato che fa ancora più riflettere: pochi studenti e 60 insegnanti (solo il 3% del totale) hanno bloccato un’iniziativa per tutta l’università, imponendo la loro volontà alla maggioranza. E qui affiora un problema classico in Italia, come si vede anche da quello che è accaduto recentemente in Parlamento: un gruppetto si impone sulla maggioranza, e impedisce ogni possibilità di azione. Questo è un pericolo per la democrazia. Ci terrei, inoltre, a segnalare il fatto che molti degli studenti che si sono opposti in questo modo alla visita del Papa professano con orgoglio di essere “contro il sistema”. Ma non si rendono conto che il loro modo di comportarsi, invece, è figlio proprio di questo sistema, in cui vince chi urla di più, chi si fa più notare, non chi ha i migliori argomenti; c’è un interesse nell’impoverimento della ragione, del dibattito. E questo è gravissimo. Essi sono dentro a tutto ciò che criticano; solo, vi entrano da un’altra porta rispetto ai “conformisti” classici. Con queste premesse, oggi i veri ribelli risultano essere coloro che, in questo mondo caotico e volgare, riescono a mantenere un distacco elegante, una superiorità intellettuale che li porta a preferire sempre la moderazione e il dialogo al litigio e alle grida. Distacco che ha mantenuto il Papa, ma che, il più delle volte, è tipica proprio di molti intellettuali laici.

Giovanni Collot

Il dibattito sulla legge per l’aborto visto da una ragazza poco più che ventenne

Negli ultimi mesi molte pagine sono state dedicate dai giornali al dibattito iniziato da Giuliano Ferrara su una possibile moratoria sull’aborto, dibattito che ha diviso il Paese e che forse ha contribuito al crollo del già precario governo Prodi. Quel che è certo è che Ferrara è riuscito a costruire un partito su questa sua campagna ed ha trovato persone che hanno sposato la sua causa. A di là del fatto che la decisione di fondare un partito dall’oggi al domani su questioni così specifiche e delicate può essere opinabile, devo dire che è stato unanimemente riconosciuto che il pensiero di Ferrara e del Partito non è ancora stato ben definito e nemmeno a costoro è ancora chiaro che cosa vogliano: Ferrara ha infatti più volte ribadito che lui è contro l’aborto, ma che non vuole toccare la legge 194, e che è un diritto delle donne decidere del proprio corpo. Spero che sia solo un problema di comunicazione e non sia davvero così indeciso sulle sue posizioni, dato che è andato a toccare un tasto molto delicato sia per coloro che sono a favore sia per coloro che sono contro l’aborto.
Seguendo il dibattito in questi mesi ho riflettuto molto su questo diritto, sulle ragioni adite dagli uni e dagli altri e ho sentito il desiderio di esprimere il mio pensiero su questo tema sia in quanto giovane che è nata ben dopo l’entrata in vigore di tale legge che in quanto donna.
La questione dell’aborto è sempre stato un tema molto delicato da trattare perché chiama in gioco molte forze che pertengono alla sfera più intima e meno razionale della persona: da un lato l’interruzione di gravidanza, sia essa volontaria o naturale, è di per sé un evento sconvolgente e doloroso per una donna; dall’altro vengono chiamate in causa componenti come la fede che spesso rendono il dibattito complesso e non foriero di incomprensioni. Per questo credo che sia difficile parlare di ciò e soprattutto non sia il caso di utilizzarlo come vessillo durante una campagna elettorale: un tema come l’aborto dev’essere a mio parere discusso in un’arena che coinvolga direttamente la società e questa non è certo incarnata nel Parlamento che tanto per cominciare non rappresenta equamente uomini e donne e che credo abbia questioni più importanti su cui prendere decisioni che non quella di rivedere la legge sull’interruzione di gravidanza.
La legge oggi in vigore in Italia è una legge che tutela i diritti sia della madre che del feto, ed è ritenuta da molti esperti una legge competente e all’avanguardia per i tempi in cui è stata scritta: essa esprime il possibile esercizio di un diritto che risulta essere doloroso e difficile sia per chi lo esercita sia per chi preferisce non farlo. Quello che spesso viene dimenticato a mio parere quando questi politici o intellettuali parlano della pratica dell’aborto è il fatto che ciò non viene fatto a cuor leggero dalle donne, che la possibilità di abortire non implica che esse abbiano un comportamento più libertino o più irresponsabile: le motivazioni che solitamente portano all’interruzione volontaria di gravidanza trovano le proprie radici in realtà private dolorose, nella coscienza dell’impossibilità di poter garantire ad un figlio un qualsiasi tipo di futuro. Benché la legge formalmente dica che lo Stato si deve adoperare per appianare le difficoltà che portano una donna ad abortire, di fatto ciò non viene fatto, quindi la donna si trova a dover prendere da sola una decisione molto difficile che va a determinare il proprio futuro e quello di un possibile figlio.
Quando si parla di aborto, coloro che sono a sfavore spesso adducono come motivazione la necessità di affermare il diritto alla vita, quindi il diritto di ogni essere concepito a vivere. Ma forse sarebbe bene dedicarsi innanzitutto a tutelare il diritto alla vita della madre. Credo che siano nella mente di tutti le immagini del film “Quattro mesi, tre settimane, due giorni”, ritratto crudo delle pratiche abortive in Romania al tempo di Causescu, immagini che non credo si distanzino molto da quelle che prima del 1978 si verificavano quotidianamente anche in Italia. Il diritto ad essere operate in una struttura adeguata, da personale competente e in condizioni igieniche decenti, la possibilità di decidere del proprio corpo senza venir vista come colpevole agli occhi della legge, la possibilità di vedere tutelati i propri diritti fondamentali di salute e di libertà di decisione è il minimo che lo Stato possa garantire alle proprie cittadine.
Altra domanda a cui pare che Ferrara&Co. non abbiano cercato di dare risposta è che cosa si intende per diritto alla vita. Benché sia una domanda a cui non è possibile dare una risposta unanime nel mio piccolo credo che in questo contesto specifico oltre alla vita intesa come vita dell’organismo sia necessario tenere conto della qualità della vita che quest’essere umano avrà: quel che intendo dire è che per un essere umano la cosa fondamentale per crescere e divenire una persona è l’amore, e se questo manca proprio nei primi momenti della vita ciò si ripercuoterà su tutte le fasi successive della sua vita e sulla capacità di relazionarsi con gli altri. Come scrisse Calvino nel 1975, “un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri”.
Concludendo, credo che quello all’aborto sia un diritto inviolabile, dato che è l’unico modo per rendere meno crudele una decisione già di per sé lacerante, e che chiunque tenti di abrogarlo non pensi al bene delle donne, e anzi tenti di condannarle ad una condizione d’inferiorità e a dei patimenti inutili ed inumani, che nella nostra società sono inammissibili.

Leonetta Pajer

Riflessioni di una telespettatrice partecipe a consuntivo 2008

Avevo detto che quest’anno avrei seguito il Festival e così ho fatto, con sommo giovamento della mia insonnia, improvvisamente scomparsa di fronte al dinamismo della conduzione e alla brevità delle puntate…wow! Pensa che gioia per tutti i nottambuli collegati in Eurovisione!
A detta degli organizzatori la selezione per parteciparvi è stata davvero dura, ma i risultati si sono visti: l’intonazione di tutti i cantanti era perfetta, soprattutto quella di Toto Cutugno, Paolo Meneguzzi e del giovane Daniele Battaglia; i testi e le musiche assolutamente originali, almeno tanto quanto l’abbigliamento della Berté, che presa dall’entusiasmo pre-esibizione ha distrutto un cuscino dell’hotel per sistemare alla meglio il suo cappuccio da frate;  gli ospiti internazionali incredibilmente professionali, soprattutto Lenny Cravitz, che ha commosso tutti cantando dal vivo munito di occhiali da sole in onore alla moda lanciata dalla già citata Bertè. Perché noi telespettatori non lo sappiamo, ma i riflettori abbagliano!
E che dire della giuria di qualità? Chiaramente in un concorso canoro qual è il festival sanremese sarà stata  composta da noti ed esperti musicisti, no? E infatti così è stato:  il teatro dell’Ariston ha potuto beneficiare, tra gli altri, della presenza del grande maestro Nicolas Vaporidis, del sommo Federico Moccia e della divina Sarah Felberbaum. Prostriamoci dinnanzi a cotanta cultura musicale…
Indiscusso è  l’assoluto talento di tutti i  campioni in gara: certo, i poveri Sonohra, vincitori della sezione giovani che spopolano già tra le teenagers, possono davvero prenderli a modello, visto che, causa la giovane età, non sanno far altro che suonare, arrangiare, scrivere, comporre e cantare. L’inesperienza in acustico di una gavetta lunga 10 anni in giro per i pub veronesi non può reggere di fronte alla profonda varietà armonica di mostri sacri quali Grignani e Minghi. Eh, ma avranno tempo di scoprire le magie del ritocco digitale e l’arte del vendere…
La cosa sconvolgente è che poi riaccendi la tv a pranzo, capiti per caso su Raidue, ti becchi l’intervista al grande Uto Ughi e che ti trovi? Che il costo di due serate del Festival potrebbe coprire quelli di un intero anno di attività di un’orchestra sinfonica! Ma in fondo che importa se le orchestre in Italia stanno chiudendo i battenti perché non sbarcano il lunario, quando la Guaccero e la Osvart, meravigliose donne-soprammobili, possono svolazzare felici in settecento abiti diversi e Chiambretti può giocare con il palcoscenico telecomandato?Fortuna che in RAI i soldi non ci sono mai…

Isabella Ius

La storia si ripete. All’inizio del secolo, Kipling parlava, nei suoi romanzi, del Grande Gioco. Oggi, più o meno nella stessa zona, c’è un Paese fondamentale nello scacchiere internazionale, sul cui futuro si concentrano in questi mesi gli interessi di tutte le potenze: il Pakistan.  La sua importanza è dovuta alla sua posizione, al confine con l’Afghanistan, e al suo status di Paese islamico moderato, nonché unico Paese islamico dotato di atomica. Condizione che ha spinto gli Stati Uniti ad allearsi con Musharraf, come aiuto nella lotta al terrorismo. Ma questo Paese così importante è in una situazione critica da quando, il 27 dicembre, è stata uccisa in un attentato l’ex premier Benazir Bhutto, leader del partito di opposizione PPP e considerata paladina della libertà e della democrazia. E questo ha complicato orrendamente le cose, tanto che questo Paese è stato dichiarato, dall’Economist, il “Paese più pericoloso del mondo”. Ma andiamo con ordine, cercando di sbrogliare questa matassa intricatissima.
I mandanti
Prima di tutto, c’è il problema di chi abbia ucciso Benazir Bhutto, e perché. A questo proposito, pochi giorni dopo l’attentato Musharraf ha accusato Al Qaeda, che non ha smentito. I gruppi estremisti in Pakistan sono molto forti, in particolare al confine con l’Afghanistan; questo era un motivo per cui Bush finanziava il governo di Islamabad, perché mettesse fine a questo tipo di movimenti. L’attentato a Bhutto, allora, andrebbe interpretato come un’azione contro l’Occidente: Benazir, donna, occidentalizzata e soprattutto convinta alleata degli Usa, era molto scomoda per degli estremisti. Allora, risolto il problema? No. I parenti della vittima si sono scagliati contro Musharraf, accusandolo di non aver protetto a sufficienza Benazir. Soprattutto tenendo conto del fatto che si era già verificato un attentato, il 17 ottobre a Karachi, e che quindi Bhutto era un obiettivo “caldo”. Inoltre, la stessa vittima aveva rilasciato, poco prima di morire, un’intervista in cui diceva che, se fosse stata uccisa, sarebbe stato da ricercare il colpevole nel governo. Insomma, in qualche modo, potrebbe Musharraf essere mandante dell’omicidio? C’è da dire, per prima cosa, che, nonostante l’accordo stretto pochi mesi prima tra i due, comunque Bhutto era all’opposizione, ed era un’opposizione scomoda, vista la sua influenza. Inoltre, i rapporti, dopo un iniziale avvicinamento, si erano di nuovo inaspriti. Infine, Musharraf ha già dimostrato di essere un doppiogiochista. Quindi, potrebbe esserci un accordo tra governo ed estremisti? La matassa si imbroglia ancora di più.
La vittima
In tutto ciò, non bisogna credere che Benazir Bhutto fosse la santa che ci dicono. Bisogna separare il simbolo dalla persona. Se come simbolo era (e rimane) giustamente ritenuta da molti sostenitrice della democrazia, liberale, moderna, e la migliore soluzione per il Pakistan, la persona si rivela con un po’ di macchie. Ad esempio, non bisogna dimenticare che le accuse di corruzione che le furono rivolte non erano proprio false. Inoltre, anche lei ha dato più volte prova di opportunismo politico. Non ha aspettato tanto, una volta tornata in Pakistan, a rompere l’accordo con Musharraf; l’ha fatto per vera vocazione democratica, o perché ha percepito da che parte soffiava il vento, e ha voluto approfittare dello scontento della popolazione? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che, nelle sue due volte da premier, non fu così esaltante al governo, anzi; commise molti errori.
I problemi
A tutto ciò, bisogna aggiungere la visione privata del potere. La politica è ancora a livello feudale in Pakistan; e a questa idea di dominio familiare non si sottraeva nemmeno Bhutto, figlia del fondatore del Partito Popolare. Questo è un problema tipico del Pakistan, consistente nell’idea di un potere gestito tra pochi, senza grande partecipazione della popolazione. Ed è anche grazie a questi comportamenti che il Pakistan è sull’orlo del disastro: il popolo, che vedeva lontani i governanti, ha cominciato ad avvicinarsi a chi lo aiutava di più, a chi lo ascoltava; e così ha cominciato a legarsi ai fondamentalisti islamici, che oggi, Musharraf o no, sono sempre più potenti. E questo è gravissimo; l’incubo orribile che tiene svegli i governanti di mezzo mondo è quello che fondamentalisti islamici prendano il potere in uno Stato atomico. Allora sì sarebbe grave. Questa situazione è stata causata dai politici pakistani, nessuno escluso, dai loro giochi di potere e di interessi a scapito della popolazione, come mostra Rushdie in “Shame”. E così, oggi, la situazione è sfuggita di mano.
La soluzione
Nonostante tutto, però, tra tutti Benazir Bhutto sarebbe stata ancora la scelta migliore, in vista delle elezioni. Benazir avrebbe potuto comunque mantenere un certo livello di democrazia, magari minimale, ma sicuramente maggiore rispetto a quella garantita da Musharraf. E, cosa ancora più importante, avrebbe assicurato un maggiore appoggio all’Occidente. Inoltre (e qui il simbolo riaffiora; ma la storia è fatta soprattutto di simboli importanti), era comunque una donna libera in un Paese musulmano. Non sarebbe stata la soluzione di tutti i mali del Pakistan, ma sicuramente avrebbe potuto porre un freno a quei problemi che, in ogni caso, ha dato una mano a creare. Non so cosa farà il PPP; certo che però è privato di un leader importante, nel bene e nel male. La matassa è imbrogliata; non si vede una soluzione efficace, per ora. Bisogna aspettare, e sperare che le parole e le idee di Benazir Bhutto, più che la sua effettiva azione politica, trovino terreno per germogliare.

Giovanni Collot

4 statuette ai fratelli registi, mentre tra gli attori trionfano gli europei
Non è stata certo una cerimonia memorabile, quella dell’ottantesima edizione degli Academy Awards, a cominciare dalla sfilata delle stelle di Hollywood sul red carpet, svoltasi sotto un cielo grigio e con qualche goccia di pioggia.
Né è stato tempestato di statuette alcuno dei film in gara: il vincitore della serata, ovvero “Non è un paese per vecchi” di Joel ed Ethan Coen, ha ricevuto in tutto “solo” 4 degli ambiti premi. Si tratta in ogni caso di un bel successo per i due fratelli registi, che si sono aggiudicati i riconoscimenti per il miglior film, la miglior regia, la migliore sceneggiatura non originale e il miglior attore non protagonista. Quest’ultimo premio è stato infatti vinto da Javier Bardem, primo attore spagnolo a vincere l’aurea statuetta.
Bardem ha inaugurato una serata trionfale per gli attori europei: poco dopo, il premio per la migliore attrice non protagonista è andato a sorpresa a Tilda Swinton, che ha battuto la superfavorita Cate Blanchett con la sua interpretazione in “Michael Clayton” a fianco di George Clooney. L’Oscar per il miglior attore protagonista è andato al grande Daniel Day-Lewis, vincitore quasi annunciato con il suo ruolo in “Il petroliere” nonostante le ottime performance dei suoi avversari, tra cui lo stesso Clooney. Una piacevole sorpresa, invece, l’assegnazione del premio per la miglior attrice protagonista alla francese Marion Cotillard, alias Edith Piaf in “La vie en rose”: molto più nota in patria che all’estero, l’attrice transalpina è solo la seconda nella storia a ricevere l’Oscar per un’interpretazione in una lingua diversa dall’inglese (la prima, bisogna ricordarlo, è stata Sophia Loren nel 1961). Emozionatissima e raggiante alla consegna del premio, la Cotillard ha battuto la Blanchett (nominata anche in questa categoria) e la favorita Julie Christie.
Se per noi italiani è stato un po’ deludente il fatto che il cortometraggio “Il supplente” di Andrea Jublin non sia stato premiato, non si può certo dire che l’Italia sia rimasta a bocca asciutta: Dante Ferretti, con la moglie Francesca Lo Schiavo, ha vinto la statuetta (la seconda, dopo quella del 2005) per le scenografie di “Sweeney Todd”. Un altro italiano, Dario Marianelli, è l’autore della colonna sonora di “Espiazione” vincitrice dell’Oscar nella categoria.
Tra gli altri premi degni di nota vanno ricordati “The Counterfeiters” dell’austriaco Stefan Rudowitzky (miglior film straniero); “Ratatouille” (miglior film d’animazione); “Elizabeth: the Golden Age” (migliori costumi); “Juno” (migliore sceneggiatura originale); “The Bourne Ultimatum” (miglior montaggio, miglior missaggio sonoro, miglior montaggio sonoro); “Once” (miglior canzone originale).

F.P.

Demetris Christofias, leader del partito comunista Akel, ha vinto al ballottaggio di domenica 24 febbraio le elezioni presidenziali cipriote, battendo il rivale conservatore Ioannis Kassoulides.
Le elezioni hanno riguardato solo la parte greca, nel sud dell’isola, a nord esiste la repubblica turco-cipriota, riconosciuta solo da Ankara. Cipro infatti è divisa in due dal 1974, anno dell’invasione militare turca a seguito del fallito golpe dei nazionalisti greco-ciprioti.
Uno dei primi a complimentarsi per la vittoria è stato Mehmet Ali Talat, presidente della parte turca dell’isola. I due leader si dovrebbero incontrare a breve per avviare le trattative per la riunificazione di Cipro. D’altrone l’Akel, da tempo intrattiene rapporti privilegiati con i sindacati turco-ciprioti, e in passato il neoeletto si è incontrato più volte con il leader turco-cipriota.
Christofias è un personaggio particolare, è stato nove volte presidente del Parlamento e da 20 anni segretario generale dell’Akel. Si è laureato in scienze sociali in Unione Sovietica, si dichiara orgogliosamente figlio della classe lavoratrice, ma ha chiarito immediatamente di non voler cambiare l’economia di libero mercato che vige sull’isola. Molti scommettono su di lui come chiave di volta per sbloccare la situazione cipriota. Il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso ha detto che c’è ora «l’opportunità di superare il lungo stallo sulla questione cipriota» e ha incoraggiato Christofias «ad avviare senza indugi i negoziati sotto l’egida dell’Onu» per «un accordo risolutivo». Sembra che anche sull’altro fronte, quello turco, ci sia un qualche spiraglio per iniziare questa trattativa. Dal muro che taglia in due Nicosia passano questioni diverse ed importanti, anche l’eventuale adesione della Turchia alla Ue. Il muro rappresenta il maggior ostacolo nel processo di adesione della Turchia alla Ue, dal momento che Ankara si è rifiutata di aprire i suoi porti e aeroporti a navi e aerei greco-ciprioti. Si sta creando un clima più disteso anche tra Grecia e Turchia, nell’ultimo incontro tra il premier greco Kostas Karamanlis ed il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, quest’ultimo aveva espresso ottimismo sulla questione cipriota.
Equilibri e strategie internazionali dipendono molto dall’evolversi delle vicende nelle piccola isola mediterranea(appena 700mila abitanti), che dal 1° Gennaio di quest’anno fa parte dei paesi della zona euro. La pace è un susseguirsi di piccoli passi, nel quadro mondiale anche Cipro è importante e a Bruxelles questo lo sanno.
Il muro di Berlino è caduto grazie alle fine del comunismo nell’Europa orientale, potrebbe ora essere un presidente comunista ad abbattere l’ultimo muro d’Europa.

Federico Nastasi

Il parere dell’Ambasciatore Daniele Verga.

Nell’ambito delle conferenze seminariali promosse dal Movimento Federalista Europeo, si è dato particolare rilievo alla nuova situazione che interessa da vicino l’area del nord-est Italia, in particolare le città di Gorizia e Trieste: l’apertura del confine italo-sloveno. A tal proposito, nell’aula magna del nostro istituto è stato invitato a discorrere dell’abbattimento delle frontiere l’illustre ambasciatore italiano in Slovenia Daniele Verga. Ambasciatore a Lubljiana dal 2004, è stato un attento osservatore dell’evoluzione che ha portato ad un ulteriore allargamento dell’Europa verso est. Un allargamento complesso, senza ombra di dubbio, soprattutto dal punto di vista storico, politico ed economico. Sappiamo infatti quali sono le condizioni- in particolare economiche- da rispettare per entrare nell’area Schengen e sappiamo anche quali sono le difficoltà affrontate dai paesi reclamanti l’ingresso nell’UE. La Slovenia, comunque, ha un’economia galoppante, in constante crescita, grazie anche a particolari scelte economiche azzeccate- ad esempio lo sviluppo di grandi ed efficienti imprese pseudo-nazionalizzate, come la HITstar dei Casinò di Nova Gorica.
Adesso la Slovenia si troverà a dover affrontare il semestre di presidenza del Consiglio Europeo in cui dovrà, oltre a gestire i vari temi ereditati dalle precedenti presidenze: ratificare il trattato di Lisbona, sperando che la ratifica arrivi anche da tutti gli altri paesi; occuparsi di energia ed emissioni; aver cura di attuare un politica di buon vicinato favorevole all’allargamento- nel caso di Italia e Slovenia c’è un’identità di vedute- ; aumentare la sicurezza nei paesi dell’area Schengen, ma anche fuori di essa, prestando una particolare attenzione al Mediterraneo, che in questo delicato momento storico risente molto dell’instabilità soprattutto mediorientale.
Saprebbe delineare i principali vantaggi e svantaggi che scaturiscono dall’apertura delle frontiere?
L’apertura dei confini è un traguardo, rappresenta uno spazio di comunicazione e di movimento. Simbolicamente, è un’Unione Europea che si afferma fisicamente. Soprattutto per Gorizia, è il superamento di una fase storica, delle divisioni ideologiche. In più vi sarà un incremento del commercio per entrambi i paesi, uno stimolo allo spirito imprenditoriale che ovviamente dovrà fondarsi su una sana competizione. Non vedo dei particolari aspetti negativi, anche in tema di sicurezza: abolizione delle frontiere non vuol dire abolizione della vigilanza. Anzi, si è rafforzata, soprattutto in seguito all’accordo di Cooperazione Transfrontaliera di Polizia tra Italia e Slovenia.
Lei che è presente sul territorio sloveno da diversi anni, sa dirci com’è l’Italia vista dagli Sloveni?
Con molto piacere posso assicurarvi che c’è una grande ammirazione per il nostro paese, in particolar modo per il suo patrimonio culturale. Quindi dal fascino che l’Italia promana, ne deriva un grande desiderio di conoscenza: ogni sloveno è andato almeno una volta nella sua vita in Italia. Per non parlare poi del bilinguismo, che è molto diffuso, più che dalle nostre parti, anche se, bisogna ammetterlo, per ragioni più che altro di convenienza. Quando il 20 Dicembre sono state abbattute le frontiere, si sono realizzati i sogni di molti, in primis quello di Altiero Spinelli. Ma è giusto ricordare che le barriere “interiori”- ideologia, sentimento- erano già state abolite.

Federica Salvo

Storia del piatto:
La spiegazione più diffusa sull’origine della Feijoada è che i signori delle fazendas del caffè, delle miniere di oro e delle piantagioni di zucchero, che si servivano largamente della manodopera schiavista, dessero ai loro schiavi i resti del maiale dopo la macellazione. La cottura di questi ingredienti con fagioli neri e acqua, avrebbe dato origine alla ricetta. Tuttavia questa leggenda non trova fondamento né nella tradizione culinaria e tanto meno nelle fonti storiche.
Difatti l’alimentazione dello schiavo era basata più su farina di manioca o di mais con scarso companatico e con fagioli cotti con sale e grasso animale. Tuttavia carenza alimentare e carestie erano problemi con cui le classi soggiogate dovevano spesso confrontarsi, non essendo rari i decessi per malnutrizione. A volte, dopo un raccolto produttivo, il padrone poteva anche regalare un porco intero alla famiglia di schiavi, ma questa era un’eccezione. La carne, solitamente non era all’ordine del giorno nel menù del lavoratore della fazenda. Inoltre una ricevuta di acquisto della Casa Imperiale, datata 30 Aprile 1889, dimostra che già nello stato di Rio de Janeiro si consumavano tagli vari di maiale, dalla salsiccia alla lonza, il che dimostra che queste parti non erano affatto considerate scarti di cui liberarsi ma erano consumati anche dalla classe padronale brasiliana.
Per cui è più probabile che l’origne della feijoada sia proprio… da influssi europei. Alcuni credono che possa derivare da ricette portoghesi della regione dell’Estremadura, della Beira, di Trás-os-Montes o del Duoro, che mescolavano fagioli di vario tipo (ad esclusione di quelli neri che sono di origine americana) con salsicce, orecchie e piedi di maiale. Vi è inoltre chi sostiene che il feijoada derivi da un altro piatto europeo, come il “cassoulet” francese – che è altrettanto preparato con fagioli – o come il cozido madrileno, o la “casseruola” o “casserola” milanese.
Qualsiasi sia comunque l’origine della ricetta, essa era di sicuro già diffusa nel XIX secolo in Brasile, come testimonia un articolo del Diario de Pernambuco (Recife) in cui si annunciava che l’Hotel Théâtre recentemente inaugurato offriva “Feijoada à brasileira” tutti i venerdì.
FeijoadaLa ricetta:
INGREDIENTI(6 persone):
½ Kg di fagioli neri di tipo messicano
100g di pancetta
200g di salamino
200g di lonza di maiale
200g si salsicce di maiale
1 cipolla grande
½ testa di aglio
Pepe nero
2 foglie di alloro
1 pizzico di cumino
3 cucchiai di olio
Riso q.b.
Farina di manioca

PREPARAZIONE
Mettere a bagno per almeno 12 ore i fagioli neri in una terrina piena di acqua.
In una pentola da minestra scaldare l’olio, soffriggervi la cipolla a pezzettini, l’aglio e quando il soffritto è dorato aggiungere tutte le carni tagliate a cubetti. Una volta fritte le carni, aggiungere i fagioli, le spezie, e abbondante acqua. Continuare a mescolare per evitare che il fondo della pentola bruci ed aggiungere acqua. Lasciare cuocere a fuoco lento per 3 – 4 ore finché il sugo diventa marrone e denso. Servire con riso bianco bollito, e un poco di farina di manioca o pangrattato. Ottima bevanda di accompagnamento è la caipirinha o il vino rosso.

Francesco Gallio

No nel Meditteraneo, a volte penso che il nostro vecchio stivale stia galleggiando nel Mar Mediocrità. Almeno per quanto riguarda l’Istruzione. E’ un pensiero che mi viene di frequente. Ancora più spesso quando sono all’estero, alla giusta distanza. In Eramus, a Cracovia – in Polonia – s’ha meglio la percezione dei nostri savi “intogati”. A che serve un corso di relazioni internazionali se non ti riconosce l’esame di una lingua diversa dalle 5 “impartite dalla facoltà” (inglese, tedesco, francese, spagnolo e arabo, chissà poi perché non russo o cinese?). A cosa, se nemmeno l’esame d’inglese, uno tutelato come specie protetta dal regolamento, non puoi farlo perché ha contenuti diversi da quelli dati dal docente in Italia. Ma una lingua non dovrebbe essere un mezzo? Non si dovrebbero apprendere le benedette skills, capacità orali e scritte, per trasmettere delle conoscenze? Quelle che altri docenti, non un lettore qualsiasi, dalla pronuncia senza dubbio ineccepibile, ti hanno trasmesso. E mentre da noi si discute quali crediti formativi accettarti e quali no, quali sono le cattedre forti, quali i professori intoccabili, all`estero ci si ritrova per altri motivi. Il Ministro della Scienza (Barbara Kudryca) afferma di voler cambiare l’immagine dell`educazione. Mentre 10 illuminati lavorano al progetto di individuare i parametri per accreditare i titoli di Flagships, di centri d’eccellenza della cultura polacca, si è già approvato il dirottamento all`istruzione, entro il 2013, di oltre 4 milioni di euro di fondi europei. “La competizione tra le massime Università per ricevere tali fondi sarà un impulso per migliorarci” ha dichiarato il rettore dell’Uniwersytet Jagielloński di Cracovia. Qui in una delle più vecchie università d’Europa (1346), il cannocchiale è già rivolto al futuro. I cracoviani corrono, noi è già tanto se riusciamo a galleggiare. Senza affogare.

Davide Lessi

Elena, tu fai parte di un movimento che opera a livello locale . Che Cosa fai esattamente?

 Io sono iscritta al Circolo “Nuova Idea”, il Circolo delle Libertà di Mestre. L’obiettivo del nostro circolo è quello di affrontare i problemi della città, dei cittadini. Benché lo spirito con cui questo progetto è nato sia orientato verso destra, il vero interesse è focalizzato sul contingente della realtà locale, come cercare di migliorare le zone degradate della città per cercare di rivalutarle e renderle più vivibili. Un esempio è stata la campagna per far aumentare la vigilanza nella zona della stazione ferroviaria e di via Piave, dove risulta ormai troppo pericoloso andare e dove la microcriminalità è diffusissima. In questo modo cerchiamo di essere vicini al cittadino, cercare di capire veramente le esigenze che concretamente esistono: noi ci occupiamo solo di Mestre, non di Venezia o degli altri paesi vicini, quindi i casi su cui ci concentriamo sono legati solo alla realtà mestrina.

 Le attività con cui portiamo avanti questo progetto sono principalmente di sensibilizzazione attraverso fiaccolate, banchetti informativi per rendere consapevoli tutti i cittadini mestrini dei problemi che investono la città.

 Gli obiettivi principali che ci prefiggiamo sono la sicurezza e l’assicurazione di una maggiore vivibilità della città.

 Devo dire che ciò che facciamo sta avendo un riscontro positivo e anche persone che non condividono le nostre idee politiche apprezzano ciò che facciamo, andando al di là delle proprie credenze politiche.

  Da quando sei iscritta a questo circolo?

 Mi sono iscritta a settembre, appena ho saputo della sua esistenza. Il circolo è comunque nuovo, perché è nato a luglio dell’anno scorso.

  Come mai hai scelto di entrare a far parte di questo movimento, e quindi diventare politicamente attiva?

 Sono venuta a conoscenza del circolo attraverso una mia amica, che è la presidentessa del circolo; lei me ne ha parlato e mi ha convinto. Devo comunque dire che io sono sempre stata interessata alla politica e credo che questo tipo di organizzazione dia la possibilità di prendere dimestichezza con essa, perché è come entrare in politica dalla porta di servizio. Un altro aspetto che mi ha convinta è stata la possibilità di interagire con la popolazione: avvicinarsi così alla politica credo che sia il modo migliore, perché sono convinta che essa voglia dire essere al servizio del cittadino, e questo è ciò che noi facciamo.

  Quindi tu credi sia bene partire dal basso se si vuole fare politica…

Certamente, non credo che una persona che voglia fare politica cominci candidandosi a sindaco. La gavetta in politica secondo me è necessaria: le giornate invernali a tenere un banchetto informativo, imparare come organizzare una manifestazione, come si fanno i permessi, anche lo stesso venire insultati da persone poco educate che non hanno la nostra stessa idea politica, insegna molto e aiuta a capire che cosa vuol dire veramente volere fare qualcosa per i cittadini. Anche se faccio parte del movimento solo da pochi mesi, sono convinta di avere imparato molto, è un’esperienza che sicuramente mi ha e mi sta arricchendo: ho imparato cose che mi torneranno sicuramente utili per il futuro e ho avuto la possibilità di confrontarmi con tante persone spesso anche con idee differenti dalla mia e questo mi ha dato moltissimo.

  Tu sei entrata a far parte del Circolo delle Libertà a settembre. Nello stesso periodo Grillo e il suo V-Day hanno infiammato il dibattito politico in riguardo all’ondata di anti politica che pare abbia investito la maggior parte degli italiani. Qual è la tua idea sull’anti politica?

 Beh per quanto riguarda l’anti politica ed il qualunquismo credo che siano figli di un’esasperazione diffusa che ha reso la gente stufa e quindi disinteressata. Quando si vede che la classe politica per prima non segue le regole, ma al contrario sgarra spesso senza dimostrare alcuna remora, come fa un cittadino che lavora per portare a casa il pane ogni sera, paga regolarmente le tasse e fa  difficoltà a sbarcare il lunario a credere ancora nella classe che dovrebbe lavorare per il bene del Paese e che in realtà persegue solo i propri di interessi? E’ normale che il cittadino si senta sfiduciato .

 E questo non risparmia certo i giovani: l’essere chiamati bamboccioni non viene di certo accettato. E’ un dato di fatto che la maggior parte dei giovani che restano a vivere con la famiglia lo fanno perché non hanno scelta. Un esempio sono i ricercatori che guadagnano, se va bene, 800 euro al mese e non possono permettersi di sostenere le spese che l’indipendenza richiede. Queste persone però lavorano per la società, fanno ricerca per migliorare la vita di tutta la società, sia dal punto di vista materiale che culturale: non è giusto che vengano definiti bamboccioni, perché per loro significa subire oltre al danno, la beffa. 

 Si sta creando un conflitto intergenerazionale nel mondo del lavoro tra giovani e anziani: i primi premono per entrare, pretendendo di vedere i frutti della loro formazione e finalmente rendersi indipendenti, mentre i secondi non vogliono andare in pensione, perché temono che la pensione non sia sufficiente per affrontare le spese e quindi cercano di restare sul posto di lavoro il più a lungo possibile. Secondo me questo è molto grave e contribuisce non poco alla sfiducia nei confronti della classe che ci governa.

  Secondo te quindi questa crisi di interesse e fiducia è radicata in tutta la popolazione…

E’ così, solo la classe più ricca del Paese non è stata investita, ma tutti gli altri sia i lavoratori dipendenti che autonomi sono stati colpiti: la classe media dei lavoratori dipendenti non ha visto crescere il proprio salario da molti anni e i lavoratori autonomi si sono visti aumentare le tasse in maniera esponenziale, senza però rilevare alcun beneficio. Tutto questo esaspera le persone, che ripetono in continuazione il loro sfinimento. E questo si riflette sulla partecipazione alla vita del Paese: anch’io che comunque sono interessata alla politica e sono impegnata attivamente spesso mi rifiuto di acquistare il giornale o di guardare il telegiornale e sentire solo parlare di quanto la classe politica di questo Paese sia corrotta, in quanti scandali giudiziari sia coinvolta, assistere a discussioni tra esponenti dei diversi schieramenti prive di ogni forma di rispetto o di dialogo civile. E se questo è l’effetto su chi come me è interessato, non immagino quello sui cittadini.

 Alla fine quello che ha detto Grillo in piazza e al V-Day è quello che tutti già sapevano, e che le persone devono aver detto spesso a casa propria. Solo che lui ha dato la possibilità di dirlo apertamente in piazza, fornendo una cassa di risonanza per il malcontento del Paese.

  E tu cosa auspichi per il futuro, vista anche la crisi che si è creata in questi giorni con la sfiducia al Governo e la sua caduta?

 Spero in una maggiore informazione e coinvolgimento del Paese nelle decisioni perché senza informazione non c’è partecipazione, per impegnarsi in qualcosa bisogna crederci e quindi essere coscienti di che si tratta. Spero in un cambio positivo che si potrebbe concretizzare nell’ingresso di una classe politica più giovane: i giovani anche se hanno idee diverse, cercano di trovare un compromesso sui grandi temi di interesse comune, forse anche perché sono degli idealisti e sperano ancora di operare per il bene del Paese. A mio parere tra i giovani c’è più rispetto per gli altri e le loro idee anche se non condivise: il rispetto e la coerenza credo proprio che siano i due elementi chiave di una svolta positiva, solo con essi è possibile ridare fiducia all’elettorato, che nelle ultime due legislature in realtà si è sentita solo menata per il naso. Una nuova classe politica più giovane dotata di coerenza e rispetto potrebbero veramente fare la differenza nella politica italiana. 

Leonetta Pajer

A che punto siete con la formazione del gruppo dei giovani democratici del FVG?

In questo periodo stiamo cercando di aggregare il gruppo della provincia. Ho semplicemente cercato di fare un po’ da catalizzatore, creare una squadra. Vi sono diversi modi per partecipare: chi viene alle votazioni e quelli che partecipano più attivamente. La provincia di Gorizia, di giovani, ne conta una ventina; ovviamente Trieste e Udine ne contano di più.

Ci incontriamo in un momento difficile, domani ci sarà la votazione al senato sulla fiducia a Prodi…

Più che altro preoccupa il contesto internazionale: lo stesso giorno in cui Mastella dichiara l’uscita dalla maggioranza, i mercati internazionali danno segno che è in arrivo una crisi di portata mondiale. Mi sembra perlomeno “antipatriottico” mettere in crisi il governo quando bisogna assolutamente intervenire con scelte mirate e coraggiose tali da arginare la crisi. Un nostro grande handicap è l’incapacità di poter prendere scelte forti: conseguenza in primis della classe dirigente, oltre che dei “sistemi” (elettorale e parlamentare). Non si vede in nessun altro stato che uno o due senatori possano mettere in crisi l’intero paese. L’instabilità che ci ha accompagnato in questi due anni e la crisi sono il frutto della pessima legge elettorale.

Proprio sulla legge elettorale, la posizione del PD è sembrata un po’ altalenante.

La legge elettorale è un problema fortemente concreto: senza un governo stabile non si possono fare scelte chiare in qualsiasi campo. Il referendum così com’è non risolve il problema, per il semplice motivo che non abroga le liste bloccate.

Ma le liste per le primarie del PD, se non ricordo male, erano bloccate…

Questo è stato certamente un errore, e fortunatamente riconosciuto: nelle future primarie per i livelli locali del 10 febbraio sarà lanciato il sistema delle autocandidature.

I giovani sono cresciuti con l’idea di una politica e di partiti che si definissero necessariamente di destra o di sinistra. Per quel che ti riguarda, che aggettivo poni al PD? Centro, sinistra, centro – sinistra…

Il Pd è un soggetto plurale: tante persone che partono da opinioni diverse devono sentirsi a casa propria: con lo spirito di chi parte dalle proprie idee per metterle a confronto con altre e attuare una sintesi. A livello banale uno può definire il PD una accozzaglia dove c’è di tutto e di più , il problema e la sfida sta proprio nel riuscire a trovare una sintesi. Il problema non è se il PD sia di sinistra o di centro, è dare risposta alle domande del cittadino elettore.

Io (e chi come me) che alla parola sinistra e alle sue battaglie sono legato, posso vedere questo “guardare avanti” e questa sempre presente necessità di compromesso come un limite, in quanto si finisce con il considerare qualsiasi valore negoziabile.

Importanti sono i valori ispiratori: uno entra in politica perché ha una motivazione valida, per una ispirazione moralmente alta (si spera) o per obiettivi specifici da ottenere. Il problema è coniugare le iniziative legislative con questo tipo di valori. Nello spirito di cui parlavo prima: confronto e dialettica per dare buone risposte.

Con la sua nascita, il PD ha smosso le acque della politica italiana:quanto ha contribuito il PD a questa fine del multipartitismo?

Il primo problema che vogliamo risolvere è quello del partito personale: è sotto gli occhi di tutti il dramma di avere a che fare con piccoli partiti che, proprio per il basso numero di iscritti, vengono formati a ciascun livello sulla base di amicizie e di  interessi personali. La privatizzazione della politica allontana i giovani, ma io contesto la presunta antipatia fra giovani e politica: non è vero che i giovani non si impegnano politicamente: vi sono milioni di associazioni che agiscono a livello culturale, sociale… Il problema non è la mancanza di impegno, ma dove lo si indirizza. La privatizzazione dei partiti allontana i giovani. È anche vero che ci vuole anche impegno. L’antidoto è la partecipazione, se si è in più il sacrificio è minore.

Inquadriamo un po’ il discorso dell’antipolitica proprio in riferimento al mondo giovanile, dal libro di Stella e Rizzo al V – day di Grillo. I giovani più di altri “rischiano” di abbracciare l’antipolitica?

Antipolitica lo definirei un termine improprio: sia il libro di Stella e Rizzo che le manifestazioni di Beppe Grillo o Travaglio dimostrano una voglia di politica più di chiunque altro, e se non altro si interessano al problema. La vera antipolitica è quella nascosta sotto l’etichetta di politica: fare il partito delle libertà da un predellino di un’automobile in una sera, bè, questa è antipolitica. Non vi è un progetto nuovo, solo una scatola nuova ma i cui contenuti rimangono gli stessi.

Di  che risposte credi abbiano bisogno i giovani, e che risposte può dare il tuo partito?

Io non ho l’ambizione di conoscere tutte le domande dei giovani. Ciò che mi domando, come giovane, è come posso migliorare la comunità locale e lo stato dove abito, come posso fare in modo che l’Italia sia un faro per l’Europa, come dare credibilità a tutto il sistema delle istituzioni (pubbliche o private che siano). Sono domande fattibili da e per i giovani. Concretamente in questo momento sognerei spazi dove i giovani possano trovarsi senza aver paura di essere strumentalizzati. Dei luoghi di animazione culturale, non solo politica.

Veltroni nel suo discorso al lingotto ha insistito molto su giovani e precarietà. Cosa ne pensi, con particolare riferimento al famoso protocollo del 23 luglio che a mio avviso non è abbastanza, data la possibilità di reiterazione infinita dei contratti a tempo determinato?

Su questo sono d’accordo anch’io, 36 mesi di precarietà sono sufficienti per chiunque. I giovani fanno fatica a imporsi in termini di potere contrattuale, essendo nuovi nel mondo del lavoro, e la precarietà colpisce principalmente loro. Tutti possiamo riconoscere la famiglia come il luogo naturale in cui uno si ritrova sereno e frena le sollecitazioni della vita moderna, ma se uno non ha un lavoro stabile la famiglia non può crearla, ecco perché credo che quando parliamo di precarietà senza pensare alla famiglia parliamo in astratto.

Come gruppo giovanile, prossima cosa che proporrete?

Oltre allo sforzo di costituirci, abbiamo pensato ad alcune tematiche su cui lavorare in incontri pubblici, tra cui lo scarso sviluppo della cooperazione a livello locale e regionale con l’ex confine. Non si considera alcuna forma di sinergia fra comuni italiani e sloveni, ed è un’assurdità: basta dare un occhio alla cartina per vedere come i problemi ambientali, culturali, di urbanistica sono gli stessi da una parte e dall’altra, e andrebbero affrontati insieme, non in doppio con doppio spreco di risorse ed energie.

Cosa ti auguri per l’Italia e cosa per il PD a livello locale?

Spero che l’Italia abbia un governo forte capace di fare scelte coraggiose dato il momento storico. Nel piccolo mi piacerebbe che ai giovani che studiano all’università venisse il guizzo di allargare i propri interessi e imparare qualcosa che comunque nella vita serve: i gruppi di interesse politico – giovanili come il nostro creano unità di vedute, comunione di esperienze e amicizie.

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