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Lo ammetto fin da subito: forse non è proprio il momento migliore per tirare fuori dal cappello nuove problematiche, annose, in un momento in cui ci si batte per tenere in piedi l’economia, quella delle industrie, la piccola e media impresa, le banche, le Istituzioni e un po’, in fondo a tutto, la scuola. Non siamo ancora arrivati alla frutta ma certo che con gli stipendi attuali forse non si arriva nemmeno più alla frutta a fine pasto.

Ciò nonostante credo sia compito di uno società porre interrogativi su qualsiasi tematica di attualità, a maggior ragione se in un periodo di tagli generalizzati questa tematica implica, in un settore in particolare, un notevole sperpero di denaro. I segnali sono stati forti durante questo anno: l’Italia non parla e non fa più molto – e comunque non più di prima – per la propria politica dello sport.

Perché ora più di prima? Abbiamo scoperto solo oggi che i professori di educazione fisica preferiscono delegare il proprio lavoro a un pallone, da calcio o da pallavolo che sia? Quest’anno perché la crisi del mondo del calcio italiano, quello della nazionale s’intende, è stato l’apice e allo stesso tempo la punta dell’iceberg di un mondo sportivo che va male ma che in fondo non può distrarre l’opinione pubblica da questioni più spinose.

Partiamo dal Sud Africa. Se ne sono dette di cotte e di crude, credo che tutti convengano sulla prestazione di scarso rilievo di una nazionale che al petto portava l’ultima Coppa del Mondo vinta. A prescindere dai torti – tanti – o dai meriti – pochi – dell’allenatore, nessuno ha pensato di far saltare qualche sedia all’interno della FIGC. In Francia, l’allenatore e la Federazione sono stati chiamati a relazionare davanti il Parlamento per quanto accaduto. E non per semplici motivi di tifo o di disappunto sportivo, ma perché tutto ciò ha avuto un costo (o meglio chiamarlo investimento). Chi all’interno della Federazione ha voluto buttare fuori Donadoni – che personalmente non stimo, ma che ha fatto un dignitoso Europeo 2008 – per riprendere un allenatore oramai dichiaratosi in pensione, convincendolo a suon di quattrini? Quali pressioni ci sono state per portare sulla panchina un allenatore che ha rapporti dichiarati con la Juventus, di modo da poter portare 7 giocatori dalla società di Torino? Infine, quali interessi di marketing e branding hanno portato Buffon in porta per metà della prima partita o altri giocatori a esser convocati? Di fronte a quesiti di questo genere, sono contento di come sia andata a finire.

Ma usciamo dal mondo del calcio che ammazza tutti gli altri sport, relegati in ultimissima pagina di qualsiasi giornale sportivo. Non credo di sbagliare nell’affermare che molti settori sportivi siano in crisi di risultati. Nel mondo degli sport d’inverno, dopo aver accolto una Olimpiade, siamo andati a Vancouver con una squadra modesta numericamente e tornati con una sola medaglia d’oro, 5 medaglie in totale, sedicesimi nel medagliere. Negli europei di nuoto di Budapest 2010 ci hanno parzialmente salvato le medaglie del fondo, ma in vasca i nostri atleti sono andati mediamente male. Possiamo continuare così parlando di una pallavolo che va bene, ma a livello mondiale non riesce più a spiccare (e nell’europeo dello scorso anno l’Italia si è piazzata decima). Il basket aiuto. Pallamano non esistiamo. L’atletica non si sa perché non fa per noi (e pace all’anima di Livio Berruti). Possiamo fare la lista invece di chi ci salva sempre a livello internazionale, come la scherma. Ma tanto ce ne ricordiamo solo ogni quattro anni.

Questa lista potrebbe continuare, ma potrebbe anche essere contestata. Bisogna però rendersi conto di quanto sia necessaria una politica dello sport, attraverso le scuole e nelle piccole società locali. Bisogna educare allo sport a prescindere dal facile guadagno di cui puzza il calcio e al di fuori di qualsiasi ideologia politica o nazionalista, che rovina ancora oggi il piacere di essere sportivi e spettatori.

Il Cammino di Santiago è un pellegrinaggio vecchio secoli, riscoperto solo qualche decina d’anni fa dalle masse grazie all’opera di un frate galiziano. Da allora, e soprattutto a partire dai primi anni ’90, decine di migliaia di persone lo percorrono. Chi alla ricerca di sé stesso, chi alla ricerca della Compostela (un certificato col quale la Chiesa cattolica garantisce indulgenza ai peccatori), chi alla ricerca di un’esperienza diversa. L’ultimo caso è quello che mi riguarda. Non ho un grande rapporto con la fede, ma quando i miei amici, a loro volta miscredenti, mi hanno proposto di fare il Cammino in bici non ci ho pensato due volte. Siamo partiti da Orio al Serio, arrivati a Saragozza e da lì in pullman fino a Pamplona; qui, alle 23.30, scesi dalla corriera, abbiamo montato le bici (smontate a Milano per non farcele distruggere durante il viaggio..) alla luce di un lampione. Ovvero, se volete fare lo stesso, arrivate prima del tramonto perchè altrimenti vi verrà da “sbaggettare” o “sbacchettare”, verbi da noi utilizzati lungo il Cammino per descrivere il comportamento anomalo del parafango di uno dei compagni di viaggio (“minchia Fede, ma quanto ti sbaggetta il parafango? Fermati va…”).

Il Cammino è una macchina turistica. Intendiamoci, non è la riviera romagnola ma è un turismo tutto sommato positivo. I sentieri sono generalmente puliti visto che i pellegrini sono in genere rispettosi dell’ambiente. È una macchina turistica perchè le strutture adibite all’ospitalità sono molto efficienti, anche se variano a seconda del luogo. Per la notte si può scegliere tra alberghi normali, ostelli e cosiddetti “albergues” dei pellegrini. La nostra scelta è caduta per motivi economici proprio su questi ultimi. Spesso questi albergues erano pieni e quindi venivamo dirottati nei “polideportivos”: si dormiva sul pavimento o su qualche materasso buttato a terra per l’occasione. In generale a prezzi davvero contenuti: al massimo 7 euro per una stanza con letti comodi e altri piccoli comfort come le prese elettriche per ricaricare i vari apparecchi, per le sistemazioni più spartane abbiamo pagato 3 euro. Anche per il cibo si può definire il Cammino economico. Certo, non si mangia come allo Zodiaco, ma si può scegliere uno tra tre differenti primi, lo stesso vale per il secondo e per il dolce, mentre vino e acqua sono inclusi nel prezzo. La qualità non è eccelsa ma la quantità soddisfa anche gli stomaci più capienti. Il menu del pellegrino costa tra gli 8 e i 9 euro. Talvolta, come a Sarria, abbiamo preferito mangiare in un ristorante, per godere dello squisito “pulpo a la gallega”, piatto tipico galiziano che, oltre a essere straordinariamente buono, è anche piuttosto economico (6 euro/porzione, pane incluso).

Se intendete affrontare il Cammino preparate bene i bagagli. In genere si consiglia di viaggiare con non più di 7/8 kg in spalla (o sul portapacchi). Ciabatte o sandali, scarpe da trekking più tre mutande, tre magliette, due pantaloni corti, un paio di pantaloni lunghi, due maglioni, un k-way e quattro o cinque paia di calzini dovrebbero essere sufficienti. Evitate come la peste ogni cosa superflua, portatevi solo ciò di cui siete sicuri farete utilizzo. Se avete lo stesso caricabatterie del compagno di viaggio, portatene solo uno. Maledirete ogni grammo in più nel vostro zaino, ve lo garantisco.

Se dovessi suggerire a un pellegrino a corto di tempo quali tappe fare evitando le altre, gli direi sicuramente di fare i chilometri che separano Najera da Burgos (circa 90), durante i quali si affrontano quasi tutti i paesaggi del Cammino: usciti da Najera si è in mezzo alle splendide vigne della Navarra, poi si affrontano i primi campi di grano, in seguito si scala l’ ”alto de la pedraja”, in cima al quale si trova una splendida foresta, e discesi da quest’ultimo si può far trionfale ingresso (20 km dopo…) nella bellissima Burgos. Però a essere sincero, la parte più bella del Cammino è quella che segue Léon, gli ultimi 200 km circa per intenderci. Dopo la monotonia gialla/azzurra delle mesetas (il cielo enorme che contrasta col giallo dei campi), il verde galiziano fa migliorare anche l’umore. Le tappe sono le più impegnative ma, proprio per questo, quelle che ricordo meglio. La salita per la Cruz de Hierro e per l’alto do Cebreiro (e soprattutto, le relative discese, che durano anche mezz’ora (in bici!)) regalano davvero degli scorci fantastici che valgono tale fatica. Il paesaggio galiziano a me ha ricordato moltissimo quello scozzese, in particolare nei giorni di pioggia durante i quali la nebbia ricopre i colli intorno ai pellegrini. Cercate di godervi ogni momento e ogni passaggio del Cammino, pensate alla fatica e guardate come cambia il vostro corpo giorno dopo giorno. Se sono i pellegrini a fare il Cammino, in fondo è vero anche che è il Cammino a (dis)fare i pellegrini.

Edoardo Da Ros

 Ci sono parole che una persona elegante non pronuncia mai. Non mi riferisco al tradizionale turpiloquio, perché ritengo che certe affermazioni restino circoscritte a colui che le pronuncia, diminuendone soltanto la sua persona che, di solito, viene additata come volgare e maleducata. Il turpiloquio a cui faccio riferimento è una parola strana, non antica ma, neppure così moderna, un termine molto in voga soprattutto negli ultimi due secoli appena trascorsi e che, ad oggi, sta tornando ferocemente, seppur in forma diversa, di moda.

 Chiaramente mi sto riferendo alla parola di dodici lettere che comincia per N e finisce per O. Se ne dovrà occupare chi, in redazione, vorrà titolare l’articolo, io non voglio pronunciarla di certo. Mi fa ancora troppa paura.

 Ero a casa e, piacevolmente, osservavo la vivace vita goriziana sulla via sottostante, quando il mio sguardo è stato catturato dal massiccio e ricercato, almeno come doveva essere nei sui anni migliori, edificio del tribunale e, in lontananza, la sagoma scura, ma onnipresente del castello. Con una tazza di the in mano ho iniziato a divagare dolcemente coi miei pensieri. Non sono riuscito, come prescrive Schopenhauer a squarciare il Velo di Maya e, per forza di cose, ho ripiegato sulla realtà fenomenica. Cosa che, comunque, ha portato i suoi frutti: ho immaginato una triste Gorizia italianizzata e di epoca fascista e una, invece, più allegra, multiculturale e spensierata Görz austriaca o, lo dico con sofferenza, austro-ungarica, la Cacania di Musil, per intenderci (capitolo ottavo de “L’uomo senza qualità”). Ed è stato allora che, quella parola lì, che non voglio pronunciare, ha iniziato a martellarmi il cervello in modo ossessivo. Un vocabolo che è due volte insoffribile. Primo perché è un’invenzione, secondo perché, e sono certo che molti vorranno contraddirmi, è stata ed è tutt’ora fonte e causa di enormi problemi.

 La prima colpa può sembrare revisionista ed approssimativa, ma vi assicuro che non è affatto così. Esiste qualcosa che fino all’Ottocento, cioè fino alla sua invenzione, abbia accomunato un bavarese ed un cittadino di Amburgo? Oppure, per restare nell’indigeno, un triestino ed un siciliano? La risposta è sicuramente negativa. Per chi ambisce citare lingue, tradizioni e cultura, posso prontamente rispondere che la parlata è sempre stata locale, mai comune per una più vasta compagine territoriale e molto spesso se ne è inventata una ad hoc, come in Boemia, l’odierna Repubblica Ceca, nei Paesi Scandinavi e via dicendo. A sostegno di questa tesi, voglio ricordare come tutte le alte sfere governative e sociali in Europa, fino al famigerato XIX secolo, abbiano sempre utilizzato una lingua franca come il latino o, successivamente, il francese. Quanto imponente e massiccio è stato lo sforzo e la pretesa dello Stato-nazione nell’imporre una comune parlata, Dio solo lo sa. Istruzione e, più tardi propaganda, hanno guidato i popoli verso un’identità socio-culturale creata a tavolino per loro stessi, e chi più tardi vi ci arriva, più difficile e più tortuoso gli si presenta il cammino alla meta. Questo processo è stato talmente irruento ed invadente da superare anche il catalizzatore religioso quale fonte di identificazione popolare, decretando la vittoria del verbo orale su credo e tradizioni.

 La seconda colpa è altrettanto manifesta ed è, per necessità, collegata alla prima, il lemma, che non voglio pronunciare, ha ideato, creato e fomentato idee ed ideologie fautrici di conflitti e confini che mai prima nessuno aveva ipotizzato prendessero piede. Senza immergermi troppo nell’attuale e nel recente, di cui sono certo ogni lettore ha piena conoscenza e memoria, citerò solamente l’emblematico caso del tramonto imperiale e regio. Non un desiderio sentito e condiviso dalle popolazioni, quello della frammentazione asburgica, ma semmai una presa di posizione violenta, un diktat, posto da forze minoritarie capeggiate da miopi potenze straniere. Credo che i predicatori della sedizione in Boemia, in Galizia e in Croazia, i cechi Kramar e Klofac, il ruteno Markov, i croati Supilo e Trumbic, fossero solo delle figure isolate, con un ridottissimo appoggio popolare. Dopo il 1918, agli occhi del mondo, i popoli presero il potere, ma non ne erano pronti e la scena era già preparata per i dittatori.

Per questo rido, anzi sorrido quando leggo Langone e le sue poetiche dichiarazioni su immigrazione, cultura e nazionalità. Non mi piace quello che dice, ma adoro il come riesca sempre a proporlo al grande pubblico. Ho, invece, solo lacrime e indifferenza per altre voci e penne barbare, prive di contenuti e di stile.

Francesco Plazzotta

Spesso ci sono luoghi che appartengono di più al sogno che alla realtà. Appartengono alla mente umana, hanno formato nei secoli l’immagine che abbiamo di noi e degli altri. Senza ombra di dubbio, un posto speciale in questa categoria appartiene a Samarcanda. Tutti noi l’abbiamo sentita nominare almeno una volta, nelle canzoni, nei libri, nelle leggende; ma ben pochi di noi si sono posti il problema se esistesse,  dove fosse. Ci bastava sapere che c’era stata, e questo bastava per darci il profumo dell’esotico, per entrare nella dimensione del sogno. Samarcanda è rimasta per noi occidentali quello che era per Alessandro Magno sulla sua strada verso l’India: il fascino dello sconosciuto, la prospettiva di enormi ricchezze e di enormi orrori; è qualcosa posto al limitare del quotidiano, in grado di cambiare la nostra percezione. E’ Tamerlano, che nel 1500 governò su tutta l’Asia e su un pezzo abbondante di Europa, mettendo in crisi l’Impero Ottomano, sfrenato nel lusso come nella violenza; è la Via della Seta, con le sue carovane di cammelli e le ricchezze enormi scambiate da un capo all’altro del mondo; è un crocevia di culture unico nel mondo.

Ma Samarcanda, come tutti i luoghi del sogno,  esiste realmente, ancora oggi: è in Uzbekistan, in Asia Centrale. Uno Stato nato dal tentativo di Stalin di dividere l’indivisibile, le sterminate pianure tra Russia e Afghanistan. Un luogo che, dopo i fasti del passato, in cui era un’oasi di civiltà nel mezzo del mondo dei nomadi Mongoli, si è visto infilare in un cono d’ombra che l’ha tenuto al riparo dagli occhi del mondo, fino ad oggi. Provate a dire in giro “Vado in Uzbekistan”; la maggior parte della gente vi guarderà strano, penserà che la prendete in giro. Ma non ascoltateli: un viaggio in Uzbekistan vale veramente la pena. Quest’angolo di deserto, brullo e piatto, è capace di meravigliare anche il viaggiatore più cinico; prima di tutto perché non te lo aspetti, e poi perché effettivamente la magia è tanta. Samarcanda oggi è una tipica città sovietica, bruttina e senza personalità; ma al suo interno sono incastonati dei gioielli che provengono dal passato: il Mausoleo del grande Tamerlano, la Moschea di Bibi Khanum, la sua moglie prediletta, e soprattutto il Registan, il centro della città nel medioevo. Tutto è conservato benissimo, e la magia è accentuata dal fatto che probabilmente sarete gli unici turisti occidentali nella zona. Il cono d’ombra che ha coperto l’Uzbekistan non si è ancora alzato del tutto, e questo permette ai pochi giunti fin qui di percepire l’atmosfera vera del luogo: parlare in italiano sembra quasi un modo di disturbare la quiete del posto.

Questo si ripete anche nelle altre città, che anzi sono ancora più splendide. Se Samarcanda è una città moderna, da cui spuntano improvvisamente meraviglie del passato, Bukhara è ancora tutta intera. Camminare nelle viuzze, sulle mura o nel bazar della città ci riporta indietro di 600 anni; tutto è rimasto fermo, splendido, intonso; i mercanti che vendono spezie e tappeti sono gli stessi di allora, e i vecchi fuori dalle moschee in legno sembrano essere lì da sempre. Ma la città che più ci porta nel sogno è Khiva; per arrivarci da Bukhara bisogna fare un lungo viaggio nel Deserto Rosso, tra pozzi di petrolio e pecore, e non molto altro. E’ la strada che ha fatto secoli fa Alessandro Magno, che costeggia l’AmuDarja, l’antico Oxus.  Khiva si erge circondata da mura nel mezzo del deserto, intatta; all’interno, sembra che il tempo si sia fermato. Sembra di vivere nelle Mille ed Una Notte. Le case in fango e pietra, le moschee in legno, tutto brilla di una luce irreale, la luce del sogno. E a simboleggiare la lontananza dalla realtà, l’irragionevolezza della città, nel mezzo della piazza principale c’è un’enorme base di minareto, decorato in ceramica blu. Nel 1500 avrebbe dovuto essere il minareto più alto del mondo, una costruzione folle e ambiziosa per questa città di mercanti perduta nel deserto; ma la costruzione non fu portata a termine, perché i soldi finirono. Babele esiste veramente.

Ma l’Uzbekistan moderno non ha ereditato solo lo splendore mozzafiato da Tamerlano; ne ha ereditato anche la follia cieca. Come in molti Paesi ex Unione Sovietica, oggi anche qui il potere è concentrato in modo sultanistico nelle mani del Presidente Islam Karimov e della sua famiglia: la figlia Gulnara Karimova in particolare è contemporaneamente ambasciatrice in Spagna, all’ONU, businesswoman  e ha persino trovato il tempo per incidere un disco di musica pop. Come se la concentrazione di potere e ricchezza, molta, derivante dall’abbondante petrolio, nelle mani del clan del Presidente non bastasse, l’Uzbekistan è uno tra gli Stati con il peggiore record nei diritti umani. Ogni estate centinaia di migliaia di giovani sono portati a lavorare in condizione di semischiavitù negli sterminati campi di cotone del Paese, che ne è il secondo esportatore al mondo dopo gli USA, con la scusa dell’educazione al lavoro. Inoltre, la tortura è sistematica e indiscriminata,  usata anche contro i delitti più comuni. Craig Murray, ex ambasciatore britannico in Uzbekistan, ha persino testimoniato al suo governo di aver visto cadaveri di dissidenti bolliti vivi. Queste atrocità barbare possono fare parte di quella stessa follia di fondo che portò i cittadini di Khiva alla costruzione disperata del minareto più alto del mondo; ma non devono farci dimenticare che anche al di là del sogno più luminoso, spesso si nasconde una realtà peggiore di qualunque incubo.

Giovanni  Collot

Com’è possibile che in 10 anni di Grande Fratello, gli autori non siano stati in grado di inserire nella casa un omosessuale dichiarato? Qual è il contesto di questa scelta e quali sono le sue possibili degenerazioni?

Maicol Berti è il primo omosessuale dichiarato nella storia del Grande Fratello, o, perlomeno, così è stato presentato al pubblico. Questa definizione – destinata allo spettatore medio del GF – ha suscitato non poche polemiche nella comunità LGBT(Lesbiche Gay Bisessuali Transessuali) in primis, per ironia della sorte, quella omosessuale. La polemica nasce da un recente editoriale di Alessio De Giorgi, direttore di gay.it, che evidenzia le proprie perplessità nella scelta del concorrente ferrarese. La lettera, che non stigmatizza il personaggio di Maicol, anzi lo descrive come “una persona di straordinaria umanità, vivacissimo, esuberante e divertente” e lo sostiene “noi facciamo il tifo per lui”, critica un aspetto poco considerato dai detrattori del reality: la cronica assenza – in 10 anni di edizioni – di una figura gay “qualunque” e dichiarata. Come evidenziato da De Giorgi, Maicol dichiara di “sentirsi donna in un corpo da uomo”, un aspetto della sua personalità – definito nella psicologia come disforia di genere – che è legata alla sfera transessuale, piuttosto che quella omosessuale. Infatti, la disforia di genere è una condizione in cui una persona si sente appartenente al sesso opposto a quello di nascita; perciò, sarebbe aspettabile un suo futuro cambiamento di sesso, proprio per colmare l’ antinomia tra il suo corpo e la sua identità di genere (nel suo caso, femminile). D’altro canto, un gay dichiarato viene considerato come una persona che accetta il proprio corpo, id est c’è corrispondenza tra quest’ultimo e l‘identità di genere. Quindi, una persona può contrarre rapporti omosessuali, ma non esserlo: per questo motivo, Maicol non è gay. Di conseguenza, la decisione di far entrare questo ragazzo nella casa e di pubblicizzarlo come “il primo gay nella storia del GF italiano” assume un valore fortemente diseducativo: si porta il pubblico di uno dei più seguiti programmi italiani a confondere la condizione transessuale con quella omosessuale, aumentando ancora di più la confusione su temi già difficili e delicati; temi sui cui in Italia si deve crescere ancora molto. Dunque, se da un lato abbiamo una pubblicizzazione mediatica di un concorrente presentato come omosessuale quando non lo è, dall’altro abbiamo la cronica assenza di una figura gay “qualunque”, cioè manca una figura omofila  che riesca a rappresentare l’ omosessualità al Grande Pubblico senza cadere obbligatoriamente in stereotipi di effeminatezza e di leziosità, che purtroppo Maicol rappresenta. Questa incapacità degli autori d’ inserire una figura “qualunque”, porta un pubblico ignorante – nel senso che non ha dimestichezza con queste problematiche sessuali – al più becero sillogismo: una persona è gay, essere gay è essere effeminati e ridicoli, quindi il gay è effeminato e ridicolo; o meglio se sei gay, allora devi essere per forza effeminato, ridicolo e magari anche frocio. Quindi, l’ostracismo degli autori per rappresentare una omosessualità “quotidiana”, senza stereotipi di “checche e froci”, fa riflettere su quanto sia difficile vivere una omosessualità dichiarata in Italia: nel momento in cui si categorizza l’ omosessualità nei termini della realtà televisiva odierna, la si aliena dalla società, la si fa completamente sparire nelle sue dimensioni normali.  D’altronde, una omosessualità differente porterebbe a dubbi che la maggioranza degli italiani vorrebbe evitare; immaginate: e se mio figlio fosse gay? o un mio parente o un mio amico? oppure se lo fossi io? La necessità di porre l’omosessualità in termini quotidiani non nasce da un estremismo progressista che, in una sottospecie di panpsichismo, vuole dare voce a qualsiasi cosa che sia diverso, ma è necessario per capire dei fenomeni sociali, purtroppo diffusi e generali, che l’ opinione pubblica non capisce e non vuole capire. Non sarà un caso che, come dimostrato dalla Rivista di Sessuologia in una ricerca del 2004, la maggioranza degli uomini che usufruiscono di prostitute transessuali MtF – Male to Female, uomini che stanno diventando donne – si dichiara eterosessuale? In altre parole, l’ impedimento di dare voce a una omosessualità normale, può essere connessa alla prostituzione transessuale? Mutatis mutandis, si. Il motivo per cui un uomo dichiaratamente etero decida di andare con una prostituta transessuale – più diffuse le MtF, piuttosto che i FtM, ossia Female to Male – sono numerose e complesse. Prendiamo solo un caso. Freud, nel suo celebre saggio sul “Perturbante” (das Unheimliche, 1919), definisce il feticismo come un nesso ambiguo – seduttivo e terrorizzante – tra il familiare e lo straniero. Infatti, la cosa, su cui si pone l’attenzione del feticista, è “il sostituto per l’oggetto sessuale” ossia “una parte del corpo assai poco appropriata per gli scopi sessuali (il piede, i capelli) o un oggetto sessuale che sia in evidente relazione con la persona sessuale, ancor meglio con la sua sessualità (capi di vestiario, bianchieria). Questo sostituto viene non a torto paragonato con il feticcio, nel quale il selvaggio vede il suo Dio”. In altre parole, il familiare e lo straniero si rimescolano continuamente, generando nuovi ibridi visuali. Nel nostro caso, l’eterosessualità – il familiare, ciò che è considerato naturale e giusto dalla società – si rimescola con l’omosessualità – lo straniero, ciò che è alieno alla società – generando un ibrido: il transessuale. Per capire meglio uno dei tanti motivi della diffusione della prostituzione transessuale, è necessario considerare che per Freud, per esempio, il piede della donna, su cui cade l’attenzione del feticista, non è altro che un surrogato del pene femminile. Nelle teoria dello sviluppo psicosessuale, il bambino nella fase edipica, per superare l’angoscia di castrazione derivante dalla paura del padre e soprattutto dalla vista dei genitali femminili privi del pene, si crea un feticcio, ovvero un oggetto volto a sostituire il pene mancante nelle bambine. Se queste ultime sono prive di fallo, infatti, significa che sono state punite e quindi evirate per qualcosa che hanno commesso, quindi anche il bambino rischia l’evirazione a causa dei suoi desideri incestuosi verso la madre. Il piede, la scarpa e qualsiasi oggetto feticistico permettono così al bambino, fungendo da “fallo femminile”, di attenuare la sua angoscia derivante dalla constatazione che le bambine non hanno il pene. Quindi, in un procedimento analogo – mutatis mutandis – l’omosessuale represso, cioè una persona che si dichiara etero per pressioni – come abbiamo visto – sociali, ma ha un orientamento sessuale omofilo, può arrivare a una totale degenerazione ibrida tra eterosessualità e omosessualità. Per questi soggetti, la figura erotica diventa la donna con un pene, per l’appunto: il transessuale MtF.

Viene il dubbio che, oggi, sempre più, forse a causa di una società che ci spinge di continuo a ricercare una originalità che nei fatti non si dimostra mai tale, il desiderio sessuale degli uomini (soprattutto italiani?) s’indirizza verso la donna con il pene. O forse, non è solo questo. Forse, questo bisogno è legato a qualcosa di originario. Una mancanza la cui presenza si fa sempre più rumorosa. La mancanza di quella dimensione di completezza che ci è stata negata ab origine. Il bisogno di risolvere queste parzialità ci spinge,dunque,alla ricerca di un surrogato. La moderna scienza medica consente a taluni di vedere in queste nuove figure d’androgini, ciò che si va disperatamente cercando: un “sé” definitivamente completato. Ma, forse, questa ricerca non è altro che l’ultima istanza inconscia di un Occidente maschile che vive la profondo contraddizione tra due femminili completamente differenti. Uno reale, che in quanto tale viene vissuto drammaticamente nascondendolo dietro ritocchi di Photoshop e operazioni chirurgiche, e uno mediatico tanto onnipresente quanto inesistente. Un femminile irreale che diventa molto più sottile di un semplice velo o di un burqa; è uno mascheramento psicologico, che l’Occidente deve affrontare  e risolvere insieme ad altre tematiche come l’omosessualità. Se non altro, per pretendere che il proprio modello di sessualità sia il migliore in assoluto e quindi esportabile o imposto in altre culture e in altri paesi.

Luca Magonara

Un nuovo rimedio contro la crisi

(in caso di controindicazioni, consultare un medico)

C’è chi ingrassa con la disoccupazione, e a farne le spese siamo noi. E’ già abbastanza difficile così: bisogna inventarsene un sacco, per cercare di sopravvivere a questa nostra epoca. L’ottica di pieno impiego, nella teoria liberista, si fonda sul postulato fondamentale che, in ultima istanza, ogni maschio può sempre arruolarsi ed ogni donna prostituirsi. Ultimamente anche la politica va per la maggiore e non è da escludere che in futuro siano molti i senza occupazione che decideranno di tentare una carriera in qualche partito. Perché no? Non ve l’hanno mai detto, ma con un po’ di flessibilità è abbastanza comprensibile.

Bisogna sapere cosa fare e cosa non fare ed ogni buon consiglio è bene accetto, di questi tempi. Da parte mia, credo proprio che possa essere un argomento utile da affrontare il ruolo che tra Gorizia e Trieste (in un’ottica nazionale ammetto di non saperne nulla) ricoprono le agenzie di lavoro interinale.

Una polemica, recentemente portata avanti dal sito Bora.la e dal blog di una giornalista del Piccolo, Elisa Russo, verte proprio sul ruolo delle agenzie interinali (per intenderci: Metis, Menpower, Umana, etc.), ruolo che definirei quantomeno ambiguo.

La mia esperienza personale, a questo proposito, è stata abbastanza esemplare. Per un paio di mesi, a cavallo tra novembre e gennaio, mi sono messo alla ricerca di un lavoro. Qualcosa giusto per tirare avanti, mica niente di difficile o di qualificato. Mi sarei accontentato di tutto, dal netturbino all’operaio, sono di poche aspirazioni io e, come ben si sa, i soldi non hanno odore (altro grande postulato fondamentale del capitalismo).

Sprezzando il mio impegno, tutti mi dicevano che a Gorizia non c’era lavoro – e questo nonostante il fatto, che avrete notato sicuramente, che gli annunci delle agenzie rimangono appesi per mesi interi in vetrina. A me, che intendevo solamente mantenermi, anche un posto come addetto allo scodellamento in una mensa scolastica sarebbe andato benissimo. Ho ventiquattro anni, una buona istruzione, sono mediamente stupido, mediamente di bella presenza (ho dieci dita, due occhi e una bocca), godo di buona salute: le vie del mondo mi dovrebbero essere (quasi) tutte aperte.

E invece no. Strano a dirsi ma, per quanto fossi diventato un habitué di tutte le agenzie di Gorizia, non c’era apparentemente incarico che potessi ricoprire. Anche quando mi offrivo di fare il pelapatate, mi sentivo rispondere che il mio profilo non era quello giusto, che non ero adatto a quel lavoro, che avevano già assunto qualcuno proprio stamattina (che caso!). E questo non soltanto a me. Insomma, mi pareva proprio che non volessero darmelo, il lavoro, nemmeno quando insistevo per avere un periodo di prova. Mi facevano compilare i loro assurdi ed interminabili curricula, i loro formulari, e mi rispedivano a casa. Non mi hanno mai richiamato.

La piccola polemica nata ultimamente mi ha permesso di fare un po’ di luce sulla faccenda, di vederci un po’ meglio e di mettervi in guardia contro questi giocatori delle tre carte. Le agenzie interinali non vi daranno lavoro, per cui è meglio che ve ne stiate alla larga. Quello che a loro interessa è avere quante più persone possibile iscritte nelle loro liste, in modo da ricevere fondi pubblici (regionali, ma soprattutto europei) che vengono commisurati, a quanto ho avuto modo di capire, in base al numero di disoccupati che esse dovrebbero teoricamente “impiegare”. Invece, se ne fregano bellamente. Stanno lì, a mangiarsi i nostri contributi, e non fanno nulla per migliorare la situazione. Tutto quello che fanno è prendere i vostri dati, inserirli nei loro tabulati in modo da intascare ancora più soldi. Per il resto, chi ne sa nulla. Intanto, loro se ne possono stare a posto e fingere di essere utili alla causa. Mi sembra importante condividere questa esperienza perché quante più persone ne saranno a conoscenza tanto meno loro potranno continuare a fare questo gioco. Siete ancora in tempo per starne a debita distanza. E se proprio ci foste cascati, come il sottoscritto, potete sempre andare lì e togliervi la soddisfazione di chiedere che il vostro curriculum sia cancellato. Contandogliene quattro, possibilmente.

La meta in questione è Udine. Terra al centro del Friuli Venezia Giulia, che collega il Veneto con la Slovenia passando per Gorizia, i Pordenonesi con i Triestini e riesce a non amare, e non essere amata da nessuna di questi ultimi. Udine, la città della Gladio. Neglie docet.

Per tutti coloro che non avessero voglia di accettare con asettica ironia ciò che segue e precede, sconsiglio il proseguimento.

Udine è terra a sé stante. Capisco la naturale ed automatica spinta ad inserirla nel panorama friulano, se non altro per ragioni socio-politiche. Ma l’udinese no. Non vuole essere inserito da nessuna parte. Lui se ne sta bene per gli affari suoi, negli affari suoi. E se puoi non farteli, bè, lui ne è contento e sollevato. Preferirà piuttosto vedere la balla di fieno che ha nella stalla rotolare piano piano nel suo cortile o campo. Tanto per capire in che termini uso “friulano”, sia limpido che Udine è la capitale del Friuli e tralasciamo che siamo una regione eterogeneamente composta. Rileggi bene: Udine capitale del Friuli. Non capoluogo, non capoluogo di regione. CAPITALE. Anche perché l’omogeneità, il friulano, non la vuole. Non sa cosa farsene. È importante che tu non sia di colore e che non professi religioni strane. Lui lavora e deve lavorare, quando ha finito può finalmente andare in osteria e ordinare un “tai”. Ben che vada, tornerà a casa e urlerà alla moglie “Femine! Dulà isal di mangjà?!”. Dico “Ben che vada” perché non è detto che riuscirà a pronunciare queste parole senza mangiarsele. Sapete com’è, il vino è nemico dell’uomo e chi scappa davanti al nemico è un codardo. Questo un friulano lo sa bene.

Immediato il parallelo Udine-Gorizia. Ora, sappiamo che il FVG è un bacino particolarmente piovoso: il cosiddetto “pisc*atoio d’Italia”, se non mi fossi spiegato a dovere. Ma anche un udinese dovrà riconoscere che Gorizia è più grigia e piovosa di Udine. Già lo noti quando parti da Udine alle 8 del mattino con tanto di occhiali da sole ed a metà tragitto ti chiedi se il sole a Udine ci fosse davvero. Praticamente arrivi verso Cormons (quello che per i non-friulani è Còrmons) e ti sembra di tornare nei film degli anni ’50. Tutto in bianco e nero.

Arrivi e chi incontri? I Goriziani! Che, poi, li capisco: passare 5 mesi all’anno (sì dai, da ottobre a marzo) in queste condizioni climatiche non è facile. Poco fortunati però: se vanno a Udine sono Bisiachi o Slavi (non Sloveni, Slavi!), se vanno a Trieste sono “furlani”. E tutto il resto d’Italia non sa se risiedono in Italia o in Slovenia.

Poi ci sono i Pordenonesi che per un friulano vero, quello che abita a Udine o nella campagna circostante, è un veneto. Parlano un dialetto diverso, qualcosa di poco udinese e soprattutto non lo chiamano “tai” ma “ombra”. E a Udine l’ombra è quella che proiettano gli oggetti esposti al sole. Quando c’è.

Soprattutto il loro è un dialetto, non una lingua come il Friulano. Provaci, tu, a dire a un Friulano che la sua lingua non è una lingua. Ma in fin dei conti c’ha pure ragione, il Friulano è una lingua così come il Ligure, il Lombardo o il Sardo, come da tutela delle minoranze espressamente citata dalla nostra Costituzione.

Ma l’udinese ha anche un suo dialetto oltre al Friulano. Eh si amici, è il dialetto udinese: un misto tra friulano e veneto, parlato solo dai veri signori udinesi, i quali lo sfoggiano all’occorrenza (tipicamente in bar o a qualche banchetto) per fare i contadini evoluti, quelli che non parlano il rozzo friulano. Perché non dovete credere che l’udinese sia un contadino! No, il Friuli sarà anche una regione di umili origini, ma l’udinese non deriva da tutto ciò. Lui è nobile, aristocratico, non ha le unghie sporche di terra. Adora mangiare il frico, la polenta, il San Daniele e bersi 12-13 tagli di Cabernet ma se è un vero udinese non vi parlerà friulano! Solo dialetto udinese per lui, ed è cosa rara.

I Triestini!!! Come dimenticarsi della guerra archetipica tra Udine e Trieste!? I motivi storici li conosciamo, i libri ce li illustrano a dovere. Ma anche i bambini oramai vengono cresciuti a pane, salame&odio_per_i_Triestini, dalle cui bocche spesso esce un certo melodioso grido “Un solo grido, un solo allarme, Trieste in fiamme, Trieste in fiamme”. Cosa dicano dall’altra parte non voglio saperlo.

Tanto per intenderci, se un bambino Friulano, e quindi di Udine&dintorni, fosse chiamato durante la lezione di geografia di seconda elementare a collocare Trieste sulla piantina geografica, lui chiederebbe spazio su quella slovena. Sia chiaro.

L’uomo friulano è peraltro un uomo molto orgoglioso, grandi principi morali e la famiglia è a lui sacra. Guai se gli citi la moglie o la madre, anche se lui è il primo a chiamare la prima “femine” ed a rispondere male alla seconda. Per spiegarmi meglio, il friulano vero (questa volta mi riferisco al friulano contadino che vive in camicia di flanella, non a quello aristocratico che vive in città), quando rincasa, se trova la moglie sul divano e non a preparargli la cena in cucina, penserà che la catena è troppo lunga.

Puoi andare anche a trovarlo, qualora avessi questa malaugurata idea, ma…: 1. Lui deve lavorare; 2. Magari ha altro da fare o a minuti deve uscire; 3. Se è domenica mattina potrebbe essere a messa, anche se passa 23/24 a condire le sue frasi con delle bestemmie, siano esse esclamative o per intercalare; 4. Stai attento a non presentarti ad orari prossimi a quelli di pasto, potrebbe vedersi costretto ad invitarti a restare a cena e il vero friulano non condivide questi momenti; 5. Tua madre, anche lei friulana, ti ha istruito a non disturbare in casa d’altri, dapprima che cominciasse ad allattarti. 6. Ce ne sarebbero altri, ma mi fermo per limiti di spazio.

Soprattutto, semmai dovessi incrociarlo per strada, distogli lo sguardo. Così non sarà costretto a salutarti.

Ma, al cospetto del friulano dell’hinterland che incarna alla perfezione le sembianze comportamentali e sociologiche di un orso, vi è il friulano udinese della Udine Bene, per i meglio detta anche “Udine Bien”. E il francese non lo sanno, ma fa figo dir così!

La Udine Bene non è di un bene qualsiasi, è di un bene speciale. Per questa casta però non vi sono particolari differenze rispetto a quelle delle altre città. Ma per la Udine Bene sono fondamentali delle tassative vacanze a Cortina e soprattutto almeno 3 settimane di villeggiatura a Lignano. Dove potrai recarti o nell’hotel a 5 stelle o nella casa di proprietà a due piani con piscina e pavimento riscaldato.

Cosa!? Starai mica pensando che il pavimento riscaldato non sia così necessario nella casa al mare? Queste sono tendenziose illazioni! Il pavimento riscaldato è fondamentale!

Pay attention please: IL mare è Lignano, non vice versa. Lignano è “Udine in mutande”.

Ad ogni serata devi come minimo spendere 30 euro in drink per te ed almeno 25 euro per gli amici. Non di più, perché anche l’udinese della Udine Bene è un gran taccagno.

Magari a casa usa le lampade ad olio o le candele perché l’ENEL gli ha interrotto l’erogazione della corrente dopo 6 mesi di mancato pagamento della bolletta, ma in garage ha il Cayenne. Turbo, ovviamente.

Cayenne che andrà rigorosamente sfoggiato, almeno una volta a settimana ed obbligatoriamente il sabato sera quando si scatena la movida udinese (quale?!), per il centro storico cittadino.

Altri nemici dell’udinese sono poi il friulano della bassa e quello carnico.

Per attribuire le appropriate definizioni di ciascuno è importante eleggere il soggetto di riferimento. Un po’ come la Veritas di Hobbes secondo Schmitt.

Se partiamo da quello della bassa la situazione è semplice. Il mare è Grado, non Lignano. A Lignano ci sono le discoteche, ci si va solo per la festa di Maturità, finito il liceo. Per chi ci va, al liceo, spesso i genitori della zona preferiscono per i loro figli un bell’istituto professionale: perdersi sui libri fa male e ti rovina gli occhi. Per il resto c’è Grado, servita dalle corriere della campagna a sud di Udine. A nord c’è Udine, la gente nobile, oltre ci sono la montagna, i montanari e l’ignoto. Sono quelli che puoi effettivamente definire “contadini”.

Il carnico invece è una specie a sé stante. Non puoi condividere esperienze con lui se non abiti almeno a 30 km a nord di Udine. Il carnico, finchè non gliel’ hanno fatto capire a colpi di no, voleva staccarsi dal FVG e creare una regione a sé, con capitale Tolmezzo. Si alza alle 8, spacca un po’ di legna, la mette nel camino e passa 12 ore in osteria con gli amici (quattro, gli amici sono quattro, non di più) a bere damigiane di rosso che, per dissimulare, versa ripetutamente in bicchierini piccoli, così può berne tanti, perché “tanto sono piccoli”. Il vero carnico, quello vero che abita nei paesini, ti saluta sempre. Solitamente vede 5 o 6 anime nel corso della giornata: se tu lo incontri nei suoi vialetti, ti osserverà per circa 3 o 4 minuti ma ti saluterà, quasi con entusiasmo. A Udine sono “Citadins”, da Udine in giù sono “Terons!”

Grande diatriba udinese-carnico: l’udinese è solito definire “carnici” quelli di Tarvisio. ALT! Tarvisio è in Val Canale, non in Carnia. Non offenderlo! (soprattutto, non offendere i Tarvisiani!! Quelli bevono ancora di più!).

Ma il friulano non finisce qui! Da ottobre a marzo, è sempre tempo di “Brovade muset”! Il piatto dovrebbe essere consumato a capodanno, la tradizione lo impone e il friulano la rispetta. Anzi. La “brovada” è una rapa bianca grattugiata dopo averla macerata nella vinaccia per 40 giorni, da mangiare anche cruda. Ma guai a te se confondi il comune cotechino con l’autoctono musetto: il musetto si chiama così perché vengono adoperate parti del muso del maiale. Musetto non è cotechino e se vieni in Friuli devi saperlo.

Il friulano, non l’udinese, che si rispetti vive in camicia di flanella e pantalone di velluto. Lavora sempre e comunque ma l’estate è il suo momento migliore, quando si schiude come i boccioli di un geranio in primavera: sagre, sagre e ancora sagre che dominano estate ed autunno. Il paese scende e si spartisce i compiti, ognuno dietro il bancone o la cassa di turno. I più fortunati, ovviamente, sono quelli al gabbiotto di vino e birra. Gli altri dovranno aspettare la chiusura della serata di sagra per ubriacarsi. Quello col vocione più forte va alla pesca di beneficenza (3 biglietti 6 euro, ma è conveniente!!) e romperà i…timpani per tutta la sera. E la soddisfazione più grande sarà poter dire, a sagra conclusa, “abbiamo avuto più gente del paese a fianco”.

A settembre il gran finale: dai paesi si parte in massa e si va in città, si può finalmente assaggiare un po’ d’aria della metropoli, UDINE. Signore e signori, vi accorrono da ogni dove: è tempo di FRIULI DOC! Mai festa migliore: incitati e autorizzati e bere per 3 giorni, fino a dimenticarsi l’alfabeto.

 

Perché il friulano è un po’ così…all’inizio ti guarda male, ma dopo il secondo bicchiere è una delle più simpatiche, generose e buone persone al mondo.

Friuli Venezia Giulia, ospiti di gente unica.

Piove eppure i ragazzi sono tanti, il Venerdì arrivano i primi, ci sono le testimonianze di alcuni tra i tanti parenti delle vittime di mafia, il giorno dopo, 150.000 persone in corteo sfilano la mattina, e riempiono le aule che accolgono i seminari il pomeriggio.

E’ questo il programma della “XV Giornata nazionale dell’impegno e della memoria in ricordo delle vittime di tutte le mafie” organizzata da Libera eccezionalmente per il 20 Marzo e tenutasi quest’anno a Milano.

L’associazione combatte quotidianamente perché si abbracci la cultura della legalità, del rispetto e della pratica delle leggi. Il 21 Marzo, inizio della primavera, è una data simbolica. Ogni anno rinasce l’idea che si possa rimanere in piedi di fronte alla mafia, intesa non solo come associazione ma come atteggiamento, come allontanamento dalla corresponsabilità.

Grazie alla raccolta di un milione di firme nel 1996, Libera vede approvare la legge 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni in virtù della quale viene prevista l’assegnazione dei patrimoni e delle ricchezze di provenienza illecita a quei soggetti – associazioni, cooperative, Comuni, Province e Regioni – in grado di restituirli alla cittadinanza, tramite servizi, attività di promozione sociale e lavoro.

La Lombardia segue Sicilia, Campania, Calabria, Puglia ed occupa il quinto posto della classifica delle regioni con il maggior numero di beni confiscati. In tutto il Nord 1000 sono i beni sottratti alle mani della criminalità organizzata. Di questi, 650 sono quelli individuati in Lombardia. A questo dato (come a quelli relativi al sequestro di cocaina ed alle operazioni antidroga per cui la regione è al primo posto nel Paese) va ad aggiungersi quello relativo all’illegalità ambientale che vede la Lombardia configurarsi come terra di grandi opportunità per i trafficanti di rifiuti tossici e gli organizzatori dello smaltimento di immondizia; caso emblematico è quello documentato nel reportage “Mammasantissima a Milano” realizzato da Mario Sanna per Rai News 24 riguardo ai 65mila metri quadrati di terreni agricoli situati tra Desio, Seregno e Briosco (comuni alle porte della città) ed adibiti a discarica abusiva.

Il perché la scelta di Libera sia ricaduta su Milano per la ricorrenza del 21 Marzo si ricollega ad ognuna di queste problematiche, all’avvicinarsi dell’Expo 2015 con i suoi appetitosi appalti e, soprattutto, all’intenzione di parlare di Milano come esempio della presenza della ‘ndrangheta nel Nord Italia, dove appunto, anche la torta dell’Expo potrebbe finire per essere spartita tra quelle famiglie che dagli anni settanta si sono inserite nel tessuto politico ed economico di Milano.

Sono stati anni di paura quelli tra il 1969 ed il 1998 per la Lombardia. La regione si è trovata al primo posto in Italia per il numero di sequestri di persona: 158 contro i 128 della seconda classificata Calabria. A farne le spese sono i bei nomi dell’imprenditoria milanese ed il jet set locale. Oggi, secondo la Relazione annuale della Commissione Parlamentare Antimafia «Milano e la Lombardia, rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ‘ndrangheta in tutto il Nord Italia». A ribadirlo é lo stesso Vincenzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, autore della relazione, che definisce Milano come «la vera capitale italiana della ‘ndrangheta».

Della mafia a Milano, il 20 Marzo, ne ha parlato Giulio Cavalli, coraggioso attore di teatro che ha scelto di testimoniare contro questa presenza invisibile. Cavalli ha scelto di impegnarsi nel teatro civile, nel dare spazio alla denuncia del peso che le mafie hanno in un Nord dalla realtà economica dinamica, fluida ed adattabile. Dal 2008, anno dello spettacolo Do ut des su riti e conviti mafiosi,
vive sotto scorta. In replica anche nel prossimo Aprile, Cavalli continuerà a portare in scena un secondo spettacolo, A cento passi dal Duomo, centrato sul radicamento di cellule dei clan al Nord e sull’assordante silenzio di una regione che ancora fatica a riconoscere i nuovi mafiosi in giacca e cravatta.

Durante i seminari pomeridiani trovano spazio anche testimonianze d’oltreoceano, racconti legati alla corruzione, ad un’assenza di legalità che va oltre quella delle associazioni a delinquere di casa nostra.

Partecipo ad un seminario sul narcotraffico che si rivela una carrellata di testimonianze. Non si parla del narcotraffico in sé ma di idee per fronteggiarlo; si parla di America Latina e ne parla chi lotta contro una realtà corrotta che Libera insieme a Terra del Fuoco decide di denunciare. L’idea è quella di informare e stimolare la partecipazione ad idee e progetti, perché la solitudine legata al sentirsi portatori di un dolore che gli altri non conoscono possa venire lenita.

Tra le diverse testimonianze vi è quella di un avvocato colombiano impegnato nella difesa dei diritti umani. Racconta la storia dei “falsi positivi”, vittime del narcoparamilitarismo, di esecuzioni extragiudiziali sulle cui vicende uomini come lui si impegnano a fare luce. L’avvocato chiede che dall’Italia, scuole e singoli decidano di “adottare” un falso positivo e di sostenere le spese per le indagini su queste trame rimaste insabbiate. Non è questo l’unico progetto per cui si spera in un aiuto ed un appoggio in una giornata di cui Libera chiede l’istituzionalizzazione.

Il cammino sociale di cui Don Ciotti (fondatore dell’associazione) parla, trovi nel 21 Marzo una giornata in cui venga suggellata la promessa di impegno e grazie alle quale l’attenzione si mantenga viva, affinché davvero le loro idee camminino sulle nostre gambe.

Elena Mazza

 

 

 

 

 

Avviso per entrambi: munirsi di autoironia!

 

Udine. Terra al centro del Friuli Venezia Giulia, che collega il Veneto con la Slovenia passando per Gorizia, i Pordenonesi con i Triestini e riesce a non amare, e non essere amata da nessuna di questi ultimi.

Per tutti coloro che non avessero voglia di accettare con asettica ironia ciò che segue e precede, sconsiglio il proseguimento.

Udine è terra a sé stante. Capisco la naturale ed automatica spinta ad inserirla nel panorama friulano, se non altro per ragioni socio-politiche. Ma l’udinese no. Non vuole essere inserito da nessuna parte. Lui se ne sta bene per gli affari suoi, negli affari suoi. E se puoi non farteli, bè, lui ne è contento e sollevato. Preferirà piuttosto vedere la balla di fieno che ha nella stalla rotolare piano piano nel suo cortile o campo. Tanto per capire in che termini uso “friulano”, sia limpido che Udine è la capitale del Friuli e tralasciamo che siamo una regione eterogeneamente composta. Rileggi bene: Udine capitale del Friuli. Non capoluogo, non capoluogo di regione. CAPITALE. Anche perché l’omogeneità, il friulano, non la vuole. Non sa cosa farsene. È importante che tu non sia di colore e che non professi religioni strane.

Infatti, l’udinese ha anche un suo dialetto oltre al Friulano. Eh si amici, è il dialetto udinese: un misto tra friulano e veneto, parlato solo dai veri signori udinesi, i quali lo sfoggiano all’occorrenza (tipicamente in bar o a qualche banchetto) per fare i contadini evoluti, quelli che non parlano il rozzo friulano. Perché non dovete credere che l’udinese sia un contadino! No, il Friuli sarà anche una regione di umili origini, ma l’udinese non deriva da tutto ciò. Lui è nobile, aristocratico, non ha le unghie sporche di terra. Adora mangiare il frico, la polenta, il San Daniele e bersi 12-13 tagli di Cabernet ma se è un vero udinese non vi parlerà friulano! Solo dialetto udinese per lui, ed è cosa rara.

 

L’uomo friulano è peraltro un uomo molto orgoglioso, grandi principi morali e la famiglia è a lui sacra. Guai se gli citi la moglie o la madre, anche se lui è il primo a chiamare la prima “femine” ed a rispondere male alla seconda. Per spiegarmi meglio, il friulano vero (questa volta mi riferisco al friulano contadino che vive in camicia di flanella, non a quello aristocratico che vive in città), quando rincasa, se trova la moglie sul divano e non a preparargli la cena in cucina, penserà che la catena è troppo lunga.

Puoi andare anche a trovarlo, qualora avessi questa malaugurata idea, ma…: 1. Lui deve lavorare; 2. Magari ha altro da fare o a minuti deve uscire; 3. Se è domenica mattina potrebbe essere a messa, anche se passa 23/24 a condire le sue frasi con delle bestemmie, siano esse esclamative o per intercalare; 4. Stai attento a non presentarti ad orari prossimi a quelli di pasto, potrebbe vedersi costretto ad invitarti a restare a cena e il vero friulano non condivide questi momenti; 5. Tua madre, anche lei friulana, ti ha istruito a non disturbare in casa d’altri, dapprima che cominciasse ad allattarti. 6. Ce ne sarebbero altri, ma mi fermo per limiti di spazio.

Soprattutto, semmai dovessi incrociarlo per strada, distogli lo sguardo. Così non sarà costretto a salutarti.

Il friulano che si rispetti lavora sempre e comunque ma l’estate è il suo momento migliore, quando si schiude come i boccioli di un geranio in primavera: sagre, sagre e ancora sagre che dominano estate ed autunno. Il paese scende e si spartisce i compiti, ognuno dietro il bancone o la cassa di turno. I più fortunati, ovviamente, sono quelli al gabbiotto di vino e birra. Gli altri dovranno aspettare la chiusura della serata di sagra per ubriacarsi. E la soddisfazione più grande sarà poter dire, a sagra conclusa, “abbiamo avuto più gente del paese a fianco”.

 

Ma, al cospetto del friulano dell’hinterland che incarna alla perfezione le sembianze comportamentali e sociologiche di un orso, vi è il friulano udinese della Udine Bene, per i meglio detta anche “Udine Bien”. E il francese non lo sanno, ma fa figo dir così!

La Udine Bene non è di un bene qualsiasi, è di un bene speciale. Per la Udine Bene sono fondamentali delle tassative vacanze a Cortina e soprattutto almeno 3 settimane di villeggiatura a Lignano. Dove potrai recarti o nell’hotel a 5 stelle o nella casa di proprietà a due piani con piscina e pavimento riscaldato.

Cosa!? Starai mica pensando che il pavimento riscaldato non sia così necessario nella casa al mare? Queste sono tendenziose illazioni! Il pavimento riscaldato è fondamentale!

Pay attention please: IL mare è Lignano, non vice versa. Lignano è “Udine in mutande”.

Ad ogni serata devi come minimo spendere 30 euro in drink per te ed almeno 25 euro per gli amici. Non di più, perché anche l’udinese della Udine Bene è un gran taccagno. Magari a casa usa le lampade ad olio o le candele perché l’ENEL gli ha interrotto l’erogazione della corrente dopo 6 mesi di mancato pagamento della bolletta, ma in garage ha il Cayenne. Turbo, ovviamente. Cayenne che andrà rigorosamente sfoggiato, almeno una volta a settimana ed obbligatoriamente il sabato sera quando si scatena la movida udinese (quale?!), per il centro storico cittadino.

 

Perché il friulano è un po’ così…all’inizio ti guarda male, ma dopo il secondo bicchiere è una delle più simpatiche, generose e buone persone al mondo.

Friuli Venezia Giulia, ospiti di gente unica.

Massimiliano Andreetta

Appena arrivate a Berlino

  • compratevi un abbonamento per i trasporti pubblici – non costa poco ma di sicuro è più conveniente che comprare i singoli biglietti da 2.10 €.
  • comprate in un qualsiasi giornalaio Zitty Berlin oppure Tip – queste due riviste contengono tutti gli appuntamenti (musica, feste, cinema e altro) giorno per giorno per due settimane. Sono in tedesco.

Notizie utili per i trasporti
La metro chiude alle 00.30 e apre alle 5.30 eccetto i venerdì e sabato in cui corre tutta la notte. Se la Ubahn è chiusa i bus garantiscono le medesime tratte per tutta la notte. I taxi non costano molto.

Se rimanete pochi giorni, ecco qualche posto da non evitare!

  • Yaam, F’hain, Stralauerplatz 35, Sbahn Ostbhf. Reggae, Hip Hop, musica dal mondo. Due sale, smoke room, mercatino africano, kneipen giamaicane, spiaggia direttamente sullo sprea. Usain Bolt ha scelto di festeggiare qua il suo compleanno dopo i mondiali di atletica.Quanto costa? Dai 5 ai 10 €.
  • Berghain, Am Wriezener Bahnhof, F’hain, Ubahn Weberwiese, Sbahn Ostbhf. Miglior techno club al mondo secondo DJ Mag. Due sale, alcuni bar da raggiungere tramite scalette di ferro, dark rooms. Consiglio di andare presto, farsi fare il timbro e poi tornare – così si evitano code anche di 4 ore. La selezione all’ entrata non segue patterns. Club molto intenso. Quanto costa? 10 €.
  • Madame Claude, X-berg, Lūbbener str 19, Ubahn Schlesiches Tor. Dall’ Indie all’ elettronica. Ambiente molto confortevole. I concerti si tengono in cantina, al piano di sopra comodi divani e un calcetto. Quanto costa? Da 1 a 6 €, decidete voi.
  • Icon, Prenzlauerberg, Cantianstr 15, Ubahn Eberswalderstr. Specializzato in DnB, Downtempo, Dancehall, Hip Hop e Funk. Sonorità innovative.
  • Badeschiff, Treptow, Eichenstr 4, Ubahn Schlesiches Tor, Sbahn Treptower Park. Dall’ elettronica al nu jazz. Spiaggia e piscina galleggiante sullo Sprea. Molto rilassante.

Cosa fare prima di uscire?
Andate in Kastanien Allee, Prenzlauerberg, la mia strada preferita di Berlino, bevetevi una birra da passeggio presa al “tabacchino”. E’ comunque pieno di bei locali che, probabilmente, quando ci andrete voi non saranno più gli stessi che avevo visto io.
Se passerete la serata a X-Berg, cominciate in Oranienstrasse – andate al Luzia, al numero 34, e cercate posto nella saletta: se non c’è posto salite sulla scala di legno e controllate che sia libero di sopra.

Comprate al supermercato un kit per grigliata e andate in uno dei parchi (consiglio Gorlitzer, Treptower, Mauer): i berlinesi vanno matti per le grigliate.
Andate al Doctor Pong, Prenzlauerberg, Eberswalderstr 21. Un tavolo da ping pong, 50 persone che giocano all’ americana. Musica molto molto buona.

Importante è conoscere qualcuno del posto: molti dei locali più belli sono nascosti nelle corti dei palazzi o nelle cantine – solo conoscendoli ci si può arrivare!

Dove dormire?
Io consiglio East Seven Hostel, Prenzlauerberg, Schwedterstr 7. Ambiente confortevole, tra i migliori ostelli al mondo secondo Hostelworld.com, giardino con griglia, personale super.

Alessandro Battiston
alessandro.battiston@sconfinare.net

Vado ad introdurre l’argomento. I giapponesi in queste cose sono sempre più avanti. Così hanno deciso di sfogare i loro pruriti sessuali con un’idea che non ha nulla di divertente. Ne avrete già sentito parlare, però mi ritaglio un attimino per analizzare il fenomeno “Rapelay”. Per la cronaca, si tratta di un simulatore di stupri interattivo. E’ un videogioco in cui il protagonista può fingersi maniaco, aggredire una famiglia di donne e violentarle. A quanto pare, sarebbe (chiaramente) realistico in molti dettagli e lo scopo sarebbe, dopo aver abusato a piacimento delle tre graziose fanciulle, farle abortire.

Fermo rimanendo che mi unisco al coro che denuncia quest’aberrazione, l’indignazione che scatta in me (o in noi) non mi è mica tanto chiara. Voglio dire. Tutti noi sappiamo che i videogiochi sono violenti. Violentissimi alcuni. Però, quando si tratta di fare a pezzi con la motosega degli esseri umani o di investire dei pedoni inermi (il mai troppo compianto Carmageddon) non si levano siffatte ondate di “vibrante protesta”. Ed è su questo punto che scattano i miei interrogativi.

Perché ci dà più fastidio un gioco sullo stupro quando altri giochi da un punto di vista puramente oggettivo sono anche peggiori? (visto che, abbastanza cinicamente, preferiremmo essere violentati piuttosto che fatti a pezzi con una motosega). Che senso ha stupirsi quando esiste di peggio? Più o meno è questa l’argomentazione che è stata tentata in difesa di “Rapelay”.

Io, nel mio piccolo, ho tre spiegazioni. E mi sembrano pure abbastanza valide, anche se chiaramente parziali.

In primo luogo, lo stupro è per antonomasia un archetipo di crudeltà gratuita che la società ha sempre dovuto esecrare. E’ una delle forme iconografiche più evidenti dell’inversione dei valori fondamentali: basti pensare allo spazio che hanno, nell’immaginario collettivo, gli stupri di guerra per averne un chiaro esempio (a questo proposito, vi consiglio un libro stupendo di tale Hillman, “Un terribile amore per la guerra”). Lo stupro è un tutt’uno con altre immagini, come l’uccisione di civili (soprattutto di vecchi e bambini), o l’omicidio di preti e di suore. Lo stupro è quindi un atto terrifico in sé, che si colora di altre paranoie sociali secondo le varianti culturali: lo stupro di gruppo, il negro che stupra la bianca, lo stupro di una cristiana, di una bambina, eccetera.

Fin qui la spiegazione culturale. Se mi addentro nelle motivazioni personali, posso dire che mi dà fastidio un gioco come “Rapelay”, paragonato ad altri suoi simili, per un motivo molto semplice: mi orripila pensare che qualcuno possa tirarsi seghe mentre violenta qualcuno in 3D. Perché così viene meno quella distinzione tra reale e virtuale che viene invece mantenuta in altri videogiochi, pure molto più violenti. L’eccitamento del giocatore allupato annulla la distanza tra lui ed il suo virtuale alter ego, quindi con le sue vittime. Di conseguenza, dal punto di vista psicologico, “Rapelay” è più violento (e di molto) rispetto ad altri videogiochi perché vi è immedesimazione, attraverso un richiamo agli istinti sessuali del giocatore.

Ed ora, visto che parliamo di istinti sessuali, vengo alla mia spiegazione principale, che però è anche la più controversa e la più grave. Vorrei venisse interpretata per quello che è, ovvero un’osservazione oggettiva e razionale priva di giudizi di valore. Volete sapere perché mi indigna “Rapelay”? Perché in ogni maschio c’è una parte morbosa, più o meno sviluppata, che in realtà desidera giocarci.

Avete presente quando Kundera parla delle vertigini? La vertigine non è paura di cadere nel vuoto. Ne è il desiderio. Chi di noi, una volta in cima allo strapiombo, non ha mai sentito quel sottile impulso al tuffo? Innocuo, per fortuna. La mente veloce ti richiama, ed acciuffandoti per i capelli ti grida la realtà: se tenti il volo morirai. Non è facile però estirpare un desiderio. La pulsione non scompare ed accade così che si tramuti tout court nel suo simulatore: il bungee-jumping. E la gente, regolarmente, fa la coda per provare questa emozione che nella vita normale non potrebbe ottenere.

Torniamo al videogioco. Se una casa di distribuzione lo ha messo in commercio, vuol dire che qualcuno lo comprerà. Almeno potenzialmente. E secondo me è questo che spaventa. Ovvero, finora abbiamo sempre trattato lo stupro come una variabile deviante di un sistema buono. Quello che sconcerta davvero di fronte a “Rapelay” è capire che forse non lo è, e che si tratta al contrario di una grandezza endogena. La veemenza con cui la nostra società accusa questo videogioco mi ricorda la ferocia di chi difende le cause degli omosessuali e degli extracomunitari proprio perché ha bisogno di dimostrare a se stesso e agli altri di non essere omofobo e razzista. Un gioco come “Rapelay” sfrutta il fatto che nel rapporto sessuale c’è sempre un certo quid di violenza. Anche se minimo, anche se infinitesimale. Soprattutto da parte maschile. E se sentiamo il bisogno di attaccare così duramente “Rapelay” è prima di tutto per dimostrare a noi stessi una cosa: questa violenza morbosa, questa violenza anormale, esiste anche in qualche profondo recesso della nostra anima. Ma per fortuna non siamo disposti a lasciarle spazio così facilmente.

Rodolfo Toè
rodolfo.toe@sconfinare.net

Una riflessione sulla multi etnicità nel nostro Paese

L’attuale discussione strappa-capelli sulla natura più o meno multietnica del nostro Paese mi ha riportato a due episodi recenti. Da un lato, all’ultima indagine portata avanti da Sconfinare sulla Caritas di Gorizia, dove gli scrittori di matrice catto-comunista della Redazione inneggiavano in conclusione dell’articolo a un ritorno alle radici cristiane, in maniera “provocatoria” (questo, almeno, per voce degli stessi). Dall’altra la singolare campagna che l’Italia aveva voluto portare avanti, a nome del Vaticano, durante la stesura della Costituzione Europea, quando pareva vitale sottolineare le radici cristiane dell’Europa, sperando soprattutto in un buonismo da parte di nonno Giscard sotto le pressioni del “suo Amato”.

Con le sue ultime dichiarazioni, per l’ennesima volta la destra fornisce una grande occasione da gol a una sinistra morta, che alla destra serve di meno che da viva. Mi si potrebbe chiedere il perché io colleghi una questione politica, migratoria, ad una questione religiosa? Innanzi tutto, perché lo Stato fornisce i propri dati sull’immigrazione proprio attraverso la suddetta Caritas, proprio attraverso la bontà caritatevole dei cattolici (non degli italiani!). In secondo luogo perché mi spavento, personalmente, dell’unicum a cui si tende sempre a razionalizzare la diversità invece esistente. Definire e quindi riconoscersi in un modello artefatto porta a non capire, a chiudersi, a “dare addosso al barbaro”. Riconoscere le radici cristiane ed appellarsi a queste è un atto più che dovuto, ma dimenticare che l’Italia ha anche radici greche, arabe, pagane, medievali e, come dice giustamente uno degli scrittori sopra menzionati, mediatiche (negli ultimi 30 anni) sarebbe un torto, sarebbe una cecità da parte di una intera classe politica e di un’intera società.

La multi etnicità italiana allora è il solo fatto di definirsi siciliani, laziali o friulani. Annunciare che non esiste multi etnicità in Italia, senza avere neanche la premura di lasciare spiragli di interpretazione aperti per salvare il salvabile, vuol dire rinnegare una differenza già esistente fatta di secoli di cultura. Vuol dire, infine, non fornire appoggio teorico al tanto proclamato e voluto federalismo.

Certo, le problematiche migratorie italiane hanno una risonanza anche europea ed internazionale ma proprio dallo studio delle altre società si potrebbe apprendere di più. Ma sembra che la ripugnanza per i migranti si eguaglia a quella per i consigli. Le nostre politiche perdono allora di valore, si sgonfiano di fronte al metodo con cui sono gestite, che per tradizione alterna tecnicismo a becera demagogia, propositi legittimi a baldanzose esagerazioni.

Gli antichi romani e gli italiani di oggi non si differenziano allora, quando si accaparrano del buono che gli può venire da uno Stato “altro” e schiavizzano in terra propria le persone dello stesso. Mi viene da pensare alla Dacia, che venne saccheggiata dei tesori garantendo splendore a Roma per un altro po’ di tempo. Oggi giorno la presenza imprenditoriale italiana in Romania è elevatissima. Sfruttare il basso costo di manodopera va bene. Accogliere in maniera civile, come civile dovrebbe essere il nostro Paese, persone che sperano in un futuro italiano, no. “Dagli ai barbari!!!”

Edoardo Buonerba
edoardo.buonerba@sconfinare.net

Ti svegli alle 9 del mattino, controlli la posta, stampi i moduli dell’assicurazione sanitaria per la Russia per te e i tuoi colleghi. Hai scoperto meno di  2 giorni prima che essi sono necessari per ottenere il visto, scopo della tua visita al consolato, ma sei riuscito a spargere la parola in maniera sufficientemente efficiente (ente… ente… ente…). Esci di casa alle 10.30: sei ancora davvero rincoglionito: prendi la metro o la 91 per arrivare in via Sant’Aquilino? Opti per la seconda per una questione di velocita’ o semplicemente perche’ e’ meno faticoso. Scendi in piazzale Zavattari e prosegui a piedi. Arrivi al consolato: decine di signore e signorine russe (capelli piu’ biondi del grano, occhi piu’ azzurri del Volga) in attesa di rinnovare il passaporto. Ascolti le loro conversazioni con grande curiosita’ e ti rendi conto che un corso da autodidatta teoricamente da 70 ore (in pratica da almeno 200) non ti e’ servito a un emerito par di balle, se non a cogliere qualche pacemu, shto e sivodnja. Il panico passa col tempo, col tuo raffinato orecchio cominci a comprendere qualcosa di piu’, ma capisci perfettamente anche che la tua vita in Russia sara’ esclusivamente nelle mani della tua collega moldava che il russo lo parla per davvero.

La paurogena coda e’ gestita da un esperto usciere napoletano sui trentacinque/quaranta che tra un “kak della’?” (non depurato da una simpatica inflessione meridionale) e un “vsjo-f-parjadkje?” smista noi avventori della burocrazia russa controllando all’ingresso ogni borsa, ogni tasca, ogni piega dei cappotti per assicurarsi che nessuno di noi sia un qualche tipo di terrorista, perdendo molto piu’ tempo con le avvenenti figliole che gli si presentano che con noi ragazzi italiani, ma in tutta sincerita’ non ti senti di fargliene una colpa. Entri in un ufficio in cui ci sono 2 sportelli aperti su 4 (di cui uno riservato ai visti), tanta gente, poca aria. Il destino quella mattina ti ha messo davanti in coda 3 operatori turistici, ciascuno col suo malloppo di passaporti, fototessere, richieste di visto e certificati assicurativi: tu ne hai 5, loro ne hanno almeno 50 a testa. Oltre a loro, un ragazzo sui 25/30 che parla davvero poco. Scopri 5 minuti dopo, quando ti rivolge domande sulla compilazione di alcuni moduli con un improbabile accento inglese, che e’ irlandese. Interdetto dall’accento, inabilitato dalle poche ore di sonno, stordito dalle continue imprecazioni in russo di una baffuta donnona che sta sputando sul vetro che la separa dall’operatrice consolare, non trovi migliore risposta di un “je ne sais pas” che in una circostanza normale avrebbe suonato come fiele ai tuoi orecchi e che invece scivola leggero e melodioso sulla tua lingua come le unghie di Edward mani di forbice su una lavagna. Ripresoti dallo shock, gli rispondi in un confuso inglese che li’ deve scrivere il periodo e il motivo del suo soggiorno in Russia. Terminata la discussione col timido irlandese, osservi la fauna che popola l’ufficio: da un lato le solite russe che parlano mischiando italiano e il loro idioma, riservando alla nostra lingua in particolare gli accidenti alla burocrazia, dall’altro compatrioti che imprecano con perfetto e gustoso accento milanese riguardo le inefficienze dell’operatrice che ha dimenticato di farsi pagare (35 euro) un visto: questo simpatico contrattempo le fara’ perdere almeno 25 minuti: 25 minuti che le saranno sicuramente fatali un giorno o l’altro dato il numero di maledizioni che gli astanti le hanno riservato concentrandosi sulle sue rotule. Passata un’ora buona in coda, noti che gli operatori turistici si salutano tutti piuttosto calorosamente e che soprattutto si danno del tu con gli operatori “Ciao Olga (che assomiglia terribilmente all’insopportabile bidella delle medie), ci vediamo quando sistemate il Telex”. Ma soprattutto evinci da questa frase che il consolato ha dei problemi di comunicazione con il Ministero degli affari esteri russo, il temibilissimo MID, una sorta di leviatano del viaggio in Russia. Tu a differenza di Mourinho sei un pirla e non presti troppa attenzione a tutto cio’. Arriva il tuo turno, sei pronto: “dobryi din’” e sorriso d’ordinanza (lo esige la tua dimestichezza con gli affari diplomatici che hai assunto per osmosi vivendo a Gorizia), passi i documenti dei tuoi colleghi sotto il vetro che ti separa dall’ormai condannata Olga. Non risponde al sorriso, forse sa di essere ormai destinata a una brutta fine? No. Ti guarda come se avesse gia’ capito che non sei come Mourinho e ti dice con un italiano dolce e rotondo come una zolletta di soda caustica: “voi ripassate! Oggi telex non funziona, non posso vedere vostro invito”; rispondi poco convinto “allora ripasso domani?” e lei, adorabile come sempre, “come vi piace, domani, fatemi lavorare”, permettendoti di capire che quantomeno ha la parola “lavorare” nel suo personalissimo dizionario Olga-Clientechelestasullepalle, ma, nonostante questo, i due sentimenti che si accavallano sul tuo intestino sono entrambi molto forti e soprattutto entrambi rivolti alle sue lunghe ed esili gambe: uno ha a che fare con dei chiodi e l’altro con un diapason da 50kg. Abbandoni l’ufficio, convinto che il giorno dopo il Telex funzionera’.

Edoardo Da Ros

edoardo.daros@gmail.com

Ricordate i tempi di Casa dolce casettina-uccia-ina-ina ? Quelli in cui Ned Flanders sceglie di impartire ai tre fratelli Simpson il battesimo dopo averne ricevuto l’affidamento? Bene! Dimenticateli. Non vorrei fare la parte della Simpson-maniaca: purtroppo si da il caso che talvolta io non abbia nemmeno la costanza sufficiente per seguire con dedizione un cartone animato. Renderò quindi la tematica meno oscura: c’è chi delle proprie convinzioni fa una bandiera entro le proprie mura domestiche e chi invece si batte per persuadere anche gli altri.

Non parlo dell’idea di passare tutti in massa al biologico o del fatto di convincere tutti del fatto che Don McLean sia il più grande cantautore della storia. Mi riferisco ad una questione più difficilmente approcciabile: il proprio credo religioso.  Ned Flanders quindi riacquista a pieno titolo il diritto di campeggiare tra le primissime righe.

Cito a sproposito David Vessey, che non avendo ancora una sua pagina su Wikipedia non possiamo ancora considerare una persona importante e menchemeno autorevole; questo illustre sconosciuto, che tira avanti improvvisandosi Assistant Professor presso la Grand Valley State University e si diletta in quella sublime disciplina che è la filosofia, ha lungamente indagato gli effetti ed il senso dell’ “ama il prossimo tuo come te stesso” (Matteo 19, 19).

Principio cardine dell’etica cristiana si presenta quale messaggio chiaro a chiunque dell’italiano conosca il verbo amare, il comparativo di uguaglianza, articoli, aggettivi possessivi, i sostantivi “prossimo”, “stesso”… direi niente che un corso di 60 ore non possa insegnare. Ma, al di là dell ‘ afflato umanitario che può avere un cristiano come un ateo, come comportarsi nel caso in cui amare comporti anche l’idea di “salvare” il prossimo?

Il tentativo di Flanders era relativo al fornire col battesimo un mezzo per la salvezza eterna a soggetti inconsapevoli. Tornando sulla terra estendiamo la questione ai movimenti pro-life ed ai loro sostenitori. E’ giusto manifestare davanti alla clinica in cui si decide di staccare dai macchinari che lo tengono in vita da anni chi è in coma in nome di valori che vanno fatti rispettare?

Se entrando nel fantastico mondo di internet cercate l’espressione “integralismo religioso” scoprite che non è prerogativa specifica dei terroristi suicidi. Il non accettare forme di pluralismo ideologico è sintomo di integralismo.

Siamo divisi tra chi si arrocca ferocemente sulle proprie convinzioni e chi tenta di dissacrare le credenze altrui.

Bill Maher è un comico statunitense; protagonista di Religiolous, film-documentario in cui non risparmia nessuno: dal rabbino ortodosso di Gerusalemme, ai Mormoni, a Scientology, al Papa, ai Musulmani. Con un montaggio che non brilla per onestà intellettuale ma che punta a farci ridere scopre una serie di altarini. Cose che forse ci aspettavamo già ma che viste sotto forma di intervista a personaggi  accuratamente selezionati per avvalorare le proprie tesi sembrano gettare un’ombra su tutte le comunità di fedeli che si riesca a citare nell’arco di due ore di film. Il contenuto talvolta superficiale ed eccessivamente provocatorio  non renderebbero il film degno di lunghe trattazioni, sono però le razioni, nella fattispecie del mondo cattolico, a far pensare che sia arrivato proprio al momento giusto. Noi occidentali non abbiamo mai dato particolare valore al silenzio. Non è quasi mai oro. Il fatto di non rispondere ad una provocazione forte e diretta lascia quasi intendere che la Chiesa si ponga in una posizione di chiusura. Un non ti curar di loro che proprio non ci voleva e rifugge l’incontro o scontro che sia. Prima che un comico possa riuscire con due domande ben piazzate a far passare milioni di persone per uno stuolo di yesmen,  per così dire, poco consapevoli, torniamo a Matteo 19,19 ed alla lettura della nostra nuova conoscenza Vessey.

Riconoscere autonomia alla volontà potrebbe significare amare il prossimo come sé stessi. L’uomo razionale è l’uomo che agisce in maniera tale per cui la sua azione possa potenzialmente ritenersi legge universale. “Agisci in modo che la massima della tua azione possa diventare legge universale” scrisse Kant, cresciuto a pane e pietismo.  Sforziamoci di trattare gli altri come agenti razionali tanto quanto noi. Chi agisce per principio e non per interesse proprio avrebbe diritto a non incappare in masse di manifestanti, in Ned Flanders o Bill Maher di turno.

Elena Mazza

Renato Soru non è un politico. Non nel senso italiano del termine. È un politico sardo, una figura che mancava da tanti anni nello scenario regionale. Inoltre è uno dei pochi personaggi in Italia a vantare un lungo elenco di risultati concreti e positivi, che in uno scenario normale (da paese civile?) gli garantirebbero una sopravvivenza politica assoluta. Invece no. Siamo in Italia, dove i successi reali di quattro anni di governo non valgono una rielezione certa. Quello che vale sono le speculazioni, le chiacchiere e le manovre dietro le quinte.

Non molti conoscono il cammino della Sardegna dei passati 5 anni, ma è necessario avere un quadro chiaro per potersi schierare con l’uno o con l’atro candidato alle prossime elezioni. Nelle elezioni regionali del giugno 2004 Renato Soru vinse con il 50,1% delle preferenze, circa 487mila voti. La sfida che gli si presentò era quella di combattere il degrado e l’arretratezza della Sardegna, valorizzando il suo ampio potenziale di sviluppo e portando la regione da una situazione di “mezzogiorno” a una di “centro”.
L’impresa era tutt’altro che facile. Soru iniziò con un riordino del bilancio, una semplificazione e ottimizzazione della spesa regionale, il recupero e la salvaguardia del patrimonio naturale sardo. La prima legge del 2004 è stata la c.d. Salvacoste, che impone di rispettare una distanza di 2 km dalla costa quando si costruiscono edifici. Le successive iniziative sono state la riduzione del numero delle comunità montane (soprattutto dove l’elemento montano non esisteva proprio) e la costruzione di linee digitali e infrastrutture che hanno portato la popolazione della Sardegna ad essere la prima con copertura adsl al 100%. Il primo passo della nuova era digitale sarda, è stato il sito internet della regione, che fu inoltre garanzia di una maggiore trasparenza nella vita politica sarda.
Altri grandi risultati negli anni successivi sono stati la chiusura della base militare americana de La Maddalena entro il 2008 e la creazione di un unico ente regionale per la gestione del servizio idrico: la nuova società Abbanoa (acqua-nuova, NdR) ha sostituito i cinque enti esistenti. Senza nessun licenziamento, Abbanoa ha sistematicamente ridotto gli sprechi, e, di conseguenza i costi.
Con la legge finanziaria regionale del 2007, lo Stato ha riconosciuto alla Regione Sardegna il diritto graduale di compartecipare al gettito tributario maturato nel territorio regionale a partire dallo stesso anno. Tra il 2007 e il 2009 tale gettito è cresciuto di circa 1,4 miliardi di euro. A partire dall’anno 2010 le maggiori entrate regionali ammonteranno ad oltre 3 miliardi di euro. In cambio la Regione si fa carico degli oneri del Fondo sanitario nazionale e delle funzioni di trasporto pubblico locale, compresa la continuità territoriale, mantenendo un saldo positivo di circa 1,8 miliardi di euro.
Per quanto riguarda l’istruzione pubblica, mentre i tagli dei finanziamenti colpiscono tutta l’Italia, nell’Isola sono stati aumentati i fondi per l’edilizia scolastica, per un totale di circa 300 milioni di euro. La regione attribuisce inoltre assegni per merito fino a 500 euro mensili, agli studenti diplomati con almeno 80/100  che si iscrivono all’Università (con priorità per le facoltà scientifiche) e agli studenti universitari in regola con i crediti che abbiano almeno la media del 27. Inoltre, la Regione ha finanziato nell’ultimo triennio più di 3000 studenti per alta formazione, tirocini e “percorsi di rientro” in Sardegna, per favorire la crescita accademica e professionale dei neolaureati e garantire un efficace inserimento nel mondo lavorativo sardo. Le fonti di quanto riferito sono documenti, atti regionali e dati Istat per il periodo 2004-2008.
Tornando alla questione delle elezioni, le argomentazioni del candidato per il PDL – un certo Cappellacci ex consigliere del comune di Cagliari – sono tutte “contro”: egli afferma che quanto realizzato nel mandato Soru sia stato una delusione e un fallimento per la Sardegna. Per il programma alternativo vengono spese invece poche, pochissime parole. Anzi, in generale sono veramente poche le parole pronunciate direttamente da Cappellacci. Chi chiacchiera di più è Berlusconi: è lui che in realtà gestisce e ordina la campagna elettorale del PDL. È lui, il primo ministro italiano, che organizza e predispone le assemblee e i comizi. Ed è sempre lui che racconta le barzellette durante i convegni. Ma della Sardegna non si parla mai? Sì, il programma elettorale del “candidato del PDL Cappellacci” è preciso: cancellare tutte le norme che dal 2004 sono state fatte da Soru (Berlusconi ha detto proprio così). E quando mai un avversario politico in una campagna elettorale in Italia ha dato dei meriti al presidente uscente? Che campagna elettorale sarebbe?
In realtà, quali sono le condizioni della Sardegna? Esiste davvero il “peggioramento delle condizioni di vita” sbandierato da Berlusconi, pardon Cappellacci? Ci sentiamo davvero più indietro del 2004? Basta leggere i dati reali e si avrà la dimostrazione del contrario: la Sardegna va in direzione esattamente opposta a quella nazionale, e lo affermano i giudici più credibili i cittadini stessi.
Questa campagna elettorale purtroppo non parte dal lavoro realizzato negli ultimi quattro anni: si cerca consenso promettendo, ma non parlando di fatti concreti. E colui che si candida alla guida della regione non è che un muto e sorridente fantoccio. Nel frattempo Soru gira la Sardegna per ricordare ciò che è stato realizzato dalla sua giunta, ciò che ancora sarà fatto e soprattutto come, con i soldi risparmiati e guadagnati e non con illusioni o sogni impossibili.

Troppo serio il Presidente Soru.

Fidatevi che è meglio Soru.

Diego Pinna diego.pinna@sconfinare.net
Enrico Casu enricasu@libero.it

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