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Commedia siciliana in tre atti

Prologo, la condanna
Nella tarda mattinata di sabato 26 gennaio si riunisce l’assemblea regionale siciliana, ordine del giorno: comunicazione urgente da parte del presidente della regione. Salvatore, Totò, Cuffaro prende la parola in un clima di grande nervosismo ed emozione e, in meno di dieci minuti comunica la decisione delle sue “dimissioni irrevocabili”. Il venerdì precedente il presidente era stato condannato a 5 anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici nel processo delle talpe nella DDA di Palermo. È stato riconosciuto colpevole di favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio. L’inchiesta era iniziata nel 2001, allora la DDA di Palermo stava indagando il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro avendo installato in casa sua delle microspie. Queste vengono scoperte e il piano salta. Inizia cosi il processo alle “talpe” che hanno fatto partire la soffiata. Le indagini portano al coinvolgimento di Domenico Miceli(incarcerato nel dicembre 2006), medico ed ex assessore comunale Udc(il partito del presidente), habitué del salotto del boss e definito “anello di congiunzione” tra Cuffaro e Guttadauro. Il giorno precedente la sentenza si erano riuniti in preghiera i fedelissimi del presidente nella parrocchia di santa Lucia a Palermo, Agrigento e Caltanissetta. Condannato per favoreggiamento ai mafiosi e non alla mafia Cuffaro si sente soddisfatto, riceve la solidarietà di tutto il suo partito e buona parte dei politici nazionali, organizza un rinfresco a base di cannoli a palazzo D’Orleans. Le reazioni più immediate arrivano da Rita Borsellino e da Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia: “Non c’è l’aggravante della mafia, ma la sentenza prova il favoreggiamento di Salvatore Cuffaro di singoli mafiosi come Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona, Vincenzo Greco, Michele Aiello (il “re della sanità privata siciliana”, accusato di essere socio del boss Bernardo Provenzano) e Domenico Miceli”.

Secondo atto, il terremoto
Ci si indigna in Sicilia in quei giorni, l’attenzione però si sposta rapidamente sul tonfo del governo per la piroetta di Mastella.“Si sono mangiati tutto, non cambieremo mai” fa la gente nei bar. Sconforto e rinuncia tra i bei palazzi di Palermo. Ed invece…ed invece a metà della terza settimana di gennaio Montezemolo fa una dichiarazione, suggerendo a Cuffaro le dimissioni. Contemporaneamente Prodi dimissionario riceve una sollecitazione dalla procura di Palermo che lo invita a rimuovere il condannato dal suo ruolo(rimuovendolo effettivamente il 30 gennaio). Il pomeriggio di venerdì 25 Cuffaro riceve la visita del presidente della provincia di Catania, Raffaele Lombardo leader degli autonomisti siciliani, ex Udc anche lui. Al termine dell’incontro telefona al presidente dell’assemblea dicendogli che ha da fare delle comunicazioni urgenti per il giorno successivo.

Ultimo atto, la caduta
Sabato 26 gennaio era stata organizzata una manifestazione da sindacati partiti ed associazioni di diverse passioni politiche, senza bandiere raccomandavano fino allo spasmo, per chiedere le dimissioni del presidente. Cuffaro si dimette e dopo poco a piazza Politeama la manifestazione diventa una festa. Le reazioni del mondo politico della Trinacria sono caute, si parla di atto dovuto, meglio tardi che mai. Nessuno si sbilancia sul dopo. Ed ecco il problema, la sfida che aspetta i siciliani da qui a tre mesi. Due anni fa una parte degli isolani, con gli studenti del Rita-express in testa, si era entusiasmata per la prospettiva che rappresentava la Borsellino. I risultati furono discreti ma non sufficienti per ostacolare Cuffaro che baldanzoso raccolse un milione e trecentomila preferenze personali. In questi anni il medico di Raffadali, avevo messo in piedi un sistema clientelare mescolando cattolicesimo e tradizioni siciliane coinvolgendo amici e parenti che rivedevano in lui l’immagine rassicurante del corpulento conservatore devoto alla Madonna che mette la coppola da Santoro, la cui porta dell’ufficio era sempre aperta per chi aveva bisogno di un favore o anche solo un consulto. Non granché per una regione che sembra, sentendo chi non c’è mai stato, solo e soltanto la culla della mafia, una regione che tenta di strapparsi dal viso la maschera di bigotta, superstiziosa e appunto mafiosa.

Dietro le quinte.
La situazione che si presenta adesso non è così entusiasmante. È sfumata la possibilità della candidatura di Ivan lo Bello, numero uno di Confindustria Sicilia. Il centrosinistra in questi anni, eccezion fatta per occasionali parentesi, ha badato di più a non farsi escludere, annullare dal sistema messo in piedi da Cuffaro o a sanare litigiosità interne, che a fare opposizione. Dopo un lungo braccio di ferro tra il Pd e la Sinistra ci si è intonati per il ticket Finocchiaro-Borsellino. Due donne ma, sopratutto due modi diversi di far politica. Gli amici di Beppe Grillo hanno presentato a sorpresa una loro lista con Sonia Alfano presidente, attivista e figlia di un giornalista siciliano vicino al Msi ucciso dalla mafia nel 1993. Inaspettata questa scelta, considerato che appena due anni prima la Alfano sosteneva Rita Borsellino. Adesso dice che destra e sinistra sono uguali e che bisogna cambiare.
Il centrodestra come un esercito senza il suo generale ha trovato ordine solo dopo l’intervento di Berlusconi. Dopo la tragicomica vicenda di Gianfranco Miccichè, che iniziò la campagna elettorale dal suo sito per poi ritirarsi, ci si è accordati sul nome del presidente della provincia di Catania. Raffaele Lombardo, l’amico di Totò, che condivide con lui la stessa storia politica, entrambi giovani rampanti nella vecchia Dc e figliocci dell’ex ministro Calogero Mannino, è il candidato unico del centrodestra. Sui giornali siciliani si legge di Lombardo come il gemello diverso di Cuffaro. Non una svolta insomma, un maquillage tutt’al più. D’altronde Cuffaro non lascia da perdente, sarà capolista al senato con l’Udc.
In palio per i vincitori delle elezioni c’è oltre la poltrona da governatore anche il ruolo di nuovo “padrone” di quell’ impero politico e di clientele che è stato costruito da Cuffaro in sette anni.
Oggi dopo decenni si raccolgono interamente i frutti delle gestioni personalistiche del potere e della gestione mafiosa della cosa pubblica. Sembra un meridione ancora più lontano dal resto d’Italia, come un’enclave che sente parlare della capitale solo dalla tv. Abbandonare la Sicilia vuol dire chiudere la porta più estrema dell’Italia nel mediterraneo, fallimentare anche in un’ottica di euroregione mediterranea. Quello siciliano è un processo di erosione interna che va avanti da decenni, si muove su due binari: limitare l’efficacia dello Stato e costringere gli abitanti a sudditanza o a scappare. Tra il 1997 e il 2004 sono partiti ogni anno 7000 persone tra studenti e lavoratori. In queste condizioni si va a votare per il ruolo più importante dell’isola. Stavolta, non è la prima, la Sicilia si trova ad un bivio: riconfermare lo stato attuale delle cose o cambiare, iniziare un nuovo corso, per quanto possa essere difficile anche solo da immaginare. Ma è necessario. L’alternativa è ricacciarsi sempre di più nel fosso scavato dai pregiudizi degli altri e dalla nostra(di noi siciliani) viltà.

Federico Nastasi

E’ una impresa ardua comporre un editoriale. Più difficile di quanto si pensi. Bisogna trovare il modo di riassumere, con poche parole, tutti gli avvenimenti e le attività che hanno portato alla stampa di un nuovo numero. E come fare a riassumere l’organizzazione, la preparazione e finalmente la produzione di un giornale come Sconfinare?
Sconfinare non è un giornale come tutti gli altri. E’ innanzitutto nato come novità, come innovazione rispetto al passato: “qualcuno” ormai un paio d’anni fa, si rese conto che tra le innumerevoli attività degli studenti a Gorizia, mancava “qualcosa” che potesse essere espressione e voce  di sentimenti e idee degli studenti stessi. Non esisteva nulla che potesse riunire, seppure simbolicamente, tutti gli studenti universitari presenti a Gorizia. Da sempre si è voluto distinguere lo studente dell’Università di Trieste, da quello dell’Università di Udine, coinvolgendo tutti, chi più chi meno, in stupide discussioni politiche, riflesso dei campanilismi presenti tra le due province del Friuli Venezia Giulia.
Sconfinare nasce con la voglia di poter rappresentare un banco di discussione, un punto di incontro degli studenti. Un luogo in cui poter dialogare della realtà cittadina e universitaria, criticarne gli aspetti negativi e esaltarne quelli positivi, per abbandonare i soliti luoghi comuni.
Ora, coloro che diedero alla luce il primo Sconfinare partecipano ancora a questa attività, ma sono lontani dalla realtà goriziana: rimangono presenti con i loro consigli frutto dell’esperienza maturata in questi primi due anni di attività. Ciò che mantiene in vita il giornale è la rinnovata volontà di continuare a dialogare con la realtà locale, dell’università e delle sue istituzioni, di Gorizia, della Regione, e anche degli scenari internazionali che quotidianamente riecheggiano nelle nostre giornate di studio.
Sono dunque anche i nuovi studenti che si interessano, che portano avanti nuove idee, che aiutano Sconfinare a sopravvivere e a rinnovarsi costantemente. Sono false quelle voci di coloro che vedono il giornale come “cassa di risonanza” di alcune istituzioni. Sconfinare è sempre stato, e sempre rimarrà, lontano da ogni coinvolgimento politico. Coloro che scrivono, esprimono liberamente le proprie idee e i propri sentimenti, volontariamente e senza costrizione alcuna! E’ accaduto più volte in passato che un articolo abbia incontrato pareri e convinzioni opposte. Io invito tutti a non tirarsi indietro, a scrivere ciò che pensa, a criticare e discutere posizioni diverse dalle sue: tutti possono farlo liberamente, non esiste nessuna censura a nessun livello! Potete contattare sempre e in ogni momento la redazione del giornale scrivendo una mail a sconfinare@gmail.com, visitando il sito http://www.sconfinare.net. E’ questa possibilità che fa la differenza in Sconfinare: la partecipazione di tutti voi.

Diego Pinna

“When the next President sneezes, will Europe catch a cold?”
L’opinione pubblica americana è ormai stanca dell’era Bush, ha voglia di voltare pagina, e in questo momento ci sentiamo tutti un po’ americani. Sono stati moltissimi gli eventi che hanno caratterizzato la sua presidenza, primi su tutti gli attentati dell’11 settembre. Non mi pare questo sia il luogo adatto per ricordarli tutti, ma sicuramente è il momento di discutere alcuni dei compiti che il nuovo presidente si troverà ad affrontare tra meno di un anno.
Con una campagna elettorale così lunga, così costosa, così spettacolare, le dichiarazioni fatte dai candidati sono innumerevoli e molto spesso contraddittorie. Così non viene premiato colui (o colei) che può vantare le più audaci promesse elettorali, ma colui (o colei) che sarà stato in grado, durante tutta la campagna, di aver sviluppato una politica realista e non contraddittoria. Ma non basta, sono anche i precedenti impegni politici del candidato a influire sulle possibilità di vittoria: così, ad esempio, tutti ricorderanno il voto a favore dell’intervento in Iraq della Clinton, al pari del repubblicano McCain, quasi sempre sostenitore delle politiche di Bush; così come tutti ricorderanno il voto contrario di Obama e la sua ostilità verso le “dumb wars”.
Nelle dichiarazioni riguardo le politiche economiche da intraprendere, in realtà, i candidati differiscono di poco: tutti riconoscono il pericolo di una recessione dell’economia americana, in parte causata da politiche poco responsabili dell’attuale amministrazione, in parte dalla recente crisi dei subprime, e dalla dipendenza del petrolio straniero, che in periodi come questo raggiunge i $100 al barile. Diviene così un “interesse nazionale” trovare vie alternative, per salvare l’America (e il mondo) da una pericolosa recessione.
Significativo è purtroppo il punto sulle politiche energetiche: il protocollo di Kyoto, firmato negli ultimi mesi di presidenza Clinton, è sempre stato visto dall’attuale amministrazione Bush, come un limite per l’espansione economica americana. Ciò che però prima era un ostacolo, può essere trasformato in una opportunità. E siccome proprio il petrolio è divenuto il grande freno per l’America, è divenuto interesse nazionale convertire l’economia dipendente da esso. Solo ora acquista veramente importanza una riduzione delle emissioni dei gas serra (riprendendo le volontarie iniziative già avviate localmente da alcuni grandi centri urbani, come Los Angeles, ecc.). È necessario così utilizzare i nuovissimi biocarburanti eco-sostenibili, che dovrebbero permettere la creazione ex-novo di almeno 5 milioni di posti di lavoro, secondo le stime della Clinton. Tutti i candidati si mostrano invece incerti riguardo un aumento di produzione di energia elettrica da centrali nucleari.
Indubbiamente i temi delle politiche energetiche impegnano buona parte dei discorsi dei candidati, ma sicuramente la politica internazionale resta il centro nevralgico della campagna. Le “minacce” per l’America dopo l’11 settembre sono ancora molte, e i candidati, almeno in questa fase elettorale, sembrano mantenere su alcuni temi una buona dose di neutralità e di disponibilità alla diplomazia.
In primo luogo, il programma nucleare Iraniano è ancora visto come una minaccia per gli Usa e per Israele. Ma non solo. L’Iran finanzierebbe e armerebbe le milizie che operano in Libano e a Gaza, Hezbollah e Hamas, per destabilizzare Israele e costringerlo a impopolari interventi militari. Inoltre gli Iraniani sono indicati come i responsabili degli attacchi contro le truppe americane presenti sul suolo iracheno. È dunque evidente che le politiche Mediorientali siano un argomento di rilevante importanza: tutti i candidati hanno espresso la loro volontà di continuare un dialogo diplomatico con l’Iran, attraverso le organizzazioni internazionali. Ma tutti mantengono come ultima risorsa, sul tavolo delle trattative, un’opzione militare contro il regime iraniano.
In secondo luogo, i Democratici sono inclini ad avviare una efficace exit strategy dal pantano Iraq, coinvolgendo sempre più truppe irachene. Il candidato repubblicano McCain è invece colui che mantiene una c.d. linea dura, ricordando quanto sia necessario l’impegno militare nell’area, per contrastare Al-Qaeda e prevenire nuovi attentati al suolo americano. “That’s fine with me. We’ve been in Japan for 60 years, we’ve been in South Korea for 50 years or so”.
Infine, i candidati si sono concentrati su diverse crisi internazionali, in base all’elettorato che vorrebbero coinvolgere: così Obama ha mostrato interesse riguardo la crisi in Darfur e il genocidio Armeno. Nel numero di Luglio-Agosto 2007 di Foreign Affairs, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di una politica lungimirante, nel periodo dopo la guerra con l’Iraq, insieme con la necessità di un rinnovamento dell’apparato militare e diplomatico americano, per ristabilire gli Stati Uniti come “guida morale del mondo”.
Tra le dichiarazioni di politica internazionale di Hilary Clinton, quella che spicca per la sua componente innovativa, riguarda le Nazioni Unite. La candidata Democratica ha espresso il desiderio di vedere, sotto la sua presidenza, un’organizzazione riformata e potenziata nelle sue capacità, con una comunità internazionale (Stati Uniti compresi?) più rispettosa nei confronti dell’Onu.
Infine, rileggendo le dichiarazioni del candidato repubblicano McCain, sembra spesso di dimenticare l’epoca in cui ci troviamo, e ritornare indietro di una ventina d’anni, con il pericolo sovietico sempre incombente sulle democrazie occidentali: è sempre stato uno dei maggiori critici al Senato dell’ex presidente russo Vladimir Putin “I looked into his eyes and saw three letters: a K, a G and a B”.
McCain possiede però un buon vantaggio rispetto ai due giovani candidati democratici: in quanto prigioniero di guerra in Vietnam, ha particolarmente a cuore la legislazione circa la detenzione e la tortura di prigionieri di guerra e terroristi. Sostiene fortemente la chiusura della base americana di Guantanamo, e la sottoposizione dei detenuti a regolari procedimenti giudiziari, preservandoli dal rischio di subire torture.

Diego Pinna

Mi è sembrato piuttosto ridicolo l’atteggiamento degli studenti e dei professori in occasione della (mancata) visita del Papa alla Sapienza. E non lo dico per difendere inutilmente il Papa; non è mia intenzione. Passi che il Papa sia considerato “avversario” da alcuni laici; questo è legittimo, visti alcuni comportamenti passati del Pontefice. Ma che questo diventi un odio cieco e violento, no. E invece, è proprio ciò che, a mio parere, è avvenuto. C’è stata, a mio avviso, una grave limitazione della libertà di parola, proprio da parte di coloro che di questa libertà si fanno promotori. Insomma, tutti possono parlare, tranne il Papa. Ma così facendo, essi si sono dimostrati più intransigenti e “bigotti” dell’istituzione che vogliono “combattere”. O forse, essi intendono dire, quando proclamano i loro slogan presi in prestito da Voltaire e da altri pensatori, “libertà di parola solo a chi la pensa come noi”. Altrimenti non si spiega il fatto che Toni Negri o altri ex brigatisti, ritenuti grandi intellettuali, siano accolti a braccia aperte, e un Papa che come qualità indubbia ha sicuramente quella di essere un fine intellettuale sia rifiutato. Non sto dicendo che gli ex- brigatisti non dovrebbero tenere conferenze, anzi; ma che si usano due pesi e due misure. Dovremmo prendere spunto dal fatto che Ahmadinejad ha parlato alla Columbia University. Ci sono state proteste, giustamente, ma non hanno bloccato l’organizzazione.
Io non sono contrario alle proteste, tutt’altro; sono anch’esse uno strumento per esporre il proprio pensiero. Ma devono essere civili; invece, in questo caso, gli studenti hanno dato prova di arroganza e di cecità. Sarebbe stato molto meglio per loro, se avessero voluto mostrarsi superiori, invitare il Papa ad una discussione aperta, lasciarlo parlare, e poi fargli domande od osservazioni. Allora sì avrebbero mostrato la superiorità del pensiero “libero” e “laico” contro l’oscurantismo del Vaticano. Allora sì sarebbero stati liberali e tolleranti, condizione necessaria nel mondo contemporaneo. Invece così si sono dati la zappa sui piedi in due modi: per prima cosa, si sono dimostrati infantili e intolleranti di fronte a tutti, e in secondo luogo hanno dato buon gioco al Papa. Gli hanno permesso di essere visto dall’opinione pubblica come vittima; gli hanno fatto pubblicità gratis.
Quella dei professori e degli studenti non è laicità; è intolleranza e volgarità. La laicità è ben altro; basta pensare al già citato Voltaire, ma anche a Pasolini, a Camus, e a molti altri.  Se quelli che abbiamo visto alla Sapienza sono i rappresentanti del pensiero laico, allora non c’è da stupirsi del ritorno della religione. Ma, fortunatamente, non sono questi. Essi sono solo una minoranza. E proprio questo è un dato che fa ancora più riflettere: pochi studenti e 60 insegnanti (solo il 3% del totale) hanno bloccato un’iniziativa per tutta l’università, imponendo la loro volontà alla maggioranza. E qui affiora un problema classico in Italia, come si vede anche da quello che è accaduto recentemente in Parlamento: un gruppetto si impone sulla maggioranza, e impedisce ogni possibilità di azione. Questo è un pericolo per la democrazia. Ci terrei, inoltre, a segnalare il fatto che molti degli studenti che si sono opposti in questo modo alla visita del Papa professano con orgoglio di essere “contro il sistema”. Ma non si rendono conto che il loro modo di comportarsi, invece, è figlio proprio di questo sistema, in cui vince chi urla di più, chi si fa più notare, non chi ha i migliori argomenti; c’è un interesse nell’impoverimento della ragione, del dibattito. E questo è gravissimo. Essi sono dentro a tutto ciò che criticano; solo, vi entrano da un’altra porta rispetto ai “conformisti” classici. Con queste premesse, oggi i veri ribelli risultano essere coloro che, in questo mondo caotico e volgare, riescono a mantenere un distacco elegante, una superiorità intellettuale che li porta a preferire sempre la moderazione e il dialogo al litigio e alle grida. Distacco che ha mantenuto il Papa, ma che, il più delle volte, è tipica proprio di molti intellettuali laici.

Giovanni Collot

Il dibattito sulla legge per l’aborto visto da una ragazza poco più che ventenne

Negli ultimi mesi molte pagine sono state dedicate dai giornali al dibattito iniziato da Giuliano Ferrara su una possibile moratoria sull’aborto, dibattito che ha diviso il Paese e che forse ha contribuito al crollo del già precario governo Prodi. Quel che è certo è che Ferrara è riuscito a costruire un partito su questa sua campagna ed ha trovato persone che hanno sposato la sua causa. A di là del fatto che la decisione di fondare un partito dall’oggi al domani su questioni così specifiche e delicate può essere opinabile, devo dire che è stato unanimemente riconosciuto che il pensiero di Ferrara e del Partito non è ancora stato ben definito e nemmeno a costoro è ancora chiaro che cosa vogliano: Ferrara ha infatti più volte ribadito che lui è contro l’aborto, ma che non vuole toccare la legge 194, e che è un diritto delle donne decidere del proprio corpo. Spero che sia solo un problema di comunicazione e non sia davvero così indeciso sulle sue posizioni, dato che è andato a toccare un tasto molto delicato sia per coloro che sono a favore sia per coloro che sono contro l’aborto.
Seguendo il dibattito in questi mesi ho riflettuto molto su questo diritto, sulle ragioni adite dagli uni e dagli altri e ho sentito il desiderio di esprimere il mio pensiero su questo tema sia in quanto giovane che è nata ben dopo l’entrata in vigore di tale legge che in quanto donna.
La questione dell’aborto è sempre stato un tema molto delicato da trattare perché chiama in gioco molte forze che pertengono alla sfera più intima e meno razionale della persona: da un lato l’interruzione di gravidanza, sia essa volontaria o naturale, è di per sé un evento sconvolgente e doloroso per una donna; dall’altro vengono chiamate in causa componenti come la fede che spesso rendono il dibattito complesso e non foriero di incomprensioni. Per questo credo che sia difficile parlare di ciò e soprattutto non sia il caso di utilizzarlo come vessillo durante una campagna elettorale: un tema come l’aborto dev’essere a mio parere discusso in un’arena che coinvolga direttamente la società e questa non è certo incarnata nel Parlamento che tanto per cominciare non rappresenta equamente uomini e donne e che credo abbia questioni più importanti su cui prendere decisioni che non quella di rivedere la legge sull’interruzione di gravidanza.
La legge oggi in vigore in Italia è una legge che tutela i diritti sia della madre che del feto, ed è ritenuta da molti esperti una legge competente e all’avanguardia per i tempi in cui è stata scritta: essa esprime il possibile esercizio di un diritto che risulta essere doloroso e difficile sia per chi lo esercita sia per chi preferisce non farlo. Quello che spesso viene dimenticato a mio parere quando questi politici o intellettuali parlano della pratica dell’aborto è il fatto che ciò non viene fatto a cuor leggero dalle donne, che la possibilità di abortire non implica che esse abbiano un comportamento più libertino o più irresponsabile: le motivazioni che solitamente portano all’interruzione volontaria di gravidanza trovano le proprie radici in realtà private dolorose, nella coscienza dell’impossibilità di poter garantire ad un figlio un qualsiasi tipo di futuro. Benché la legge formalmente dica che lo Stato si deve adoperare per appianare le difficoltà che portano una donna ad abortire, di fatto ciò non viene fatto, quindi la donna si trova a dover prendere da sola una decisione molto difficile che va a determinare il proprio futuro e quello di un possibile figlio.
Quando si parla di aborto, coloro che sono a sfavore spesso adducono come motivazione la necessità di affermare il diritto alla vita, quindi il diritto di ogni essere concepito a vivere. Ma forse sarebbe bene dedicarsi innanzitutto a tutelare il diritto alla vita della madre. Credo che siano nella mente di tutti le immagini del film “Quattro mesi, tre settimane, due giorni”, ritratto crudo delle pratiche abortive in Romania al tempo di Causescu, immagini che non credo si distanzino molto da quelle che prima del 1978 si verificavano quotidianamente anche in Italia. Il diritto ad essere operate in una struttura adeguata, da personale competente e in condizioni igieniche decenti, la possibilità di decidere del proprio corpo senza venir vista come colpevole agli occhi della legge, la possibilità di vedere tutelati i propri diritti fondamentali di salute e di libertà di decisione è il minimo che lo Stato possa garantire alle proprie cittadine.
Altra domanda a cui pare che Ferrara&Co. non abbiano cercato di dare risposta è che cosa si intende per diritto alla vita. Benché sia una domanda a cui non è possibile dare una risposta unanime nel mio piccolo credo che in questo contesto specifico oltre alla vita intesa come vita dell’organismo sia necessario tenere conto della qualità della vita che quest’essere umano avrà: quel che intendo dire è che per un essere umano la cosa fondamentale per crescere e divenire una persona è l’amore, e se questo manca proprio nei primi momenti della vita ciò si ripercuoterà su tutte le fasi successive della sua vita e sulla capacità di relazionarsi con gli altri. Come scrisse Calvino nel 1975, “un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri”.
Concludendo, credo che quello all’aborto sia un diritto inviolabile, dato che è l’unico modo per rendere meno crudele una decisione già di per sé lacerante, e che chiunque tenti di abrogarlo non pensi al bene delle donne, e anzi tenti di condannarle ad una condizione d’inferiorità e a dei patimenti inutili ed inumani, che nella nostra società sono inammissibili.

Leonetta Pajer

La storia si ripete. All’inizio del secolo, Kipling parlava, nei suoi romanzi, del Grande Gioco. Oggi, più o meno nella stessa zona, c’è un Paese fondamentale nello scacchiere internazionale, sul cui futuro si concentrano in questi mesi gli interessi di tutte le potenze: il Pakistan.  La sua importanza è dovuta alla sua posizione, al confine con l’Afghanistan, e al suo status di Paese islamico moderato, nonché unico Paese islamico dotato di atomica. Condizione che ha spinto gli Stati Uniti ad allearsi con Musharraf, come aiuto nella lotta al terrorismo. Ma questo Paese così importante è in una situazione critica da quando, il 27 dicembre, è stata uccisa in un attentato l’ex premier Benazir Bhutto, leader del partito di opposizione PPP e considerata paladina della libertà e della democrazia. E questo ha complicato orrendamente le cose, tanto che questo Paese è stato dichiarato, dall’Economist, il “Paese più pericoloso del mondo”. Ma andiamo con ordine, cercando di sbrogliare questa matassa intricatissima.
I mandanti
Prima di tutto, c’è il problema di chi abbia ucciso Benazir Bhutto, e perché. A questo proposito, pochi giorni dopo l’attentato Musharraf ha accusato Al Qaeda, che non ha smentito. I gruppi estremisti in Pakistan sono molto forti, in particolare al confine con l’Afghanistan; questo era un motivo per cui Bush finanziava il governo di Islamabad, perché mettesse fine a questo tipo di movimenti. L’attentato a Bhutto, allora, andrebbe interpretato come un’azione contro l’Occidente: Benazir, donna, occidentalizzata e soprattutto convinta alleata degli Usa, era molto scomoda per degli estremisti. Allora, risolto il problema? No. I parenti della vittima si sono scagliati contro Musharraf, accusandolo di non aver protetto a sufficienza Benazir. Soprattutto tenendo conto del fatto che si era già verificato un attentato, il 17 ottobre a Karachi, e che quindi Bhutto era un obiettivo “caldo”. Inoltre, la stessa vittima aveva rilasciato, poco prima di morire, un’intervista in cui diceva che, se fosse stata uccisa, sarebbe stato da ricercare il colpevole nel governo. Insomma, in qualche modo, potrebbe Musharraf essere mandante dell’omicidio? C’è da dire, per prima cosa, che, nonostante l’accordo stretto pochi mesi prima tra i due, comunque Bhutto era all’opposizione, ed era un’opposizione scomoda, vista la sua influenza. Inoltre, i rapporti, dopo un iniziale avvicinamento, si erano di nuovo inaspriti. Infine, Musharraf ha già dimostrato di essere un doppiogiochista. Quindi, potrebbe esserci un accordo tra governo ed estremisti? La matassa si imbroglia ancora di più.
La vittima
In tutto ciò, non bisogna credere che Benazir Bhutto fosse la santa che ci dicono. Bisogna separare il simbolo dalla persona. Se come simbolo era (e rimane) giustamente ritenuta da molti sostenitrice della democrazia, liberale, moderna, e la migliore soluzione per il Pakistan, la persona si rivela con un po’ di macchie. Ad esempio, non bisogna dimenticare che le accuse di corruzione che le furono rivolte non erano proprio false. Inoltre, anche lei ha dato più volte prova di opportunismo politico. Non ha aspettato tanto, una volta tornata in Pakistan, a rompere l’accordo con Musharraf; l’ha fatto per vera vocazione democratica, o perché ha percepito da che parte soffiava il vento, e ha voluto approfittare dello scontento della popolazione? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che, nelle sue due volte da premier, non fu così esaltante al governo, anzi; commise molti errori.
I problemi
A tutto ciò, bisogna aggiungere la visione privata del potere. La politica è ancora a livello feudale in Pakistan; e a questa idea di dominio familiare non si sottraeva nemmeno Bhutto, figlia del fondatore del Partito Popolare. Questo è un problema tipico del Pakistan, consistente nell’idea di un potere gestito tra pochi, senza grande partecipazione della popolazione. Ed è anche grazie a questi comportamenti che il Pakistan è sull’orlo del disastro: il popolo, che vedeva lontani i governanti, ha cominciato ad avvicinarsi a chi lo aiutava di più, a chi lo ascoltava; e così ha cominciato a legarsi ai fondamentalisti islamici, che oggi, Musharraf o no, sono sempre più potenti. E questo è gravissimo; l’incubo orribile che tiene svegli i governanti di mezzo mondo è quello che fondamentalisti islamici prendano il potere in uno Stato atomico. Allora sì sarebbe grave. Questa situazione è stata causata dai politici pakistani, nessuno escluso, dai loro giochi di potere e di interessi a scapito della popolazione, come mostra Rushdie in “Shame”. E così, oggi, la situazione è sfuggita di mano.
La soluzione
Nonostante tutto, però, tra tutti Benazir Bhutto sarebbe stata ancora la scelta migliore, in vista delle elezioni. Benazir avrebbe potuto comunque mantenere un certo livello di democrazia, magari minimale, ma sicuramente maggiore rispetto a quella garantita da Musharraf. E, cosa ancora più importante, avrebbe assicurato un maggiore appoggio all’Occidente. Inoltre (e qui il simbolo riaffiora; ma la storia è fatta soprattutto di simboli importanti), era comunque una donna libera in un Paese musulmano. Non sarebbe stata la soluzione di tutti i mali del Pakistan, ma sicuramente avrebbe potuto porre un freno a quei problemi che, in ogni caso, ha dato una mano a creare. Non so cosa farà il PPP; certo che però è privato di un leader importante, nel bene e nel male. La matassa è imbrogliata; non si vede una soluzione efficace, per ora. Bisogna aspettare, e sperare che le parole e le idee di Benazir Bhutto, più che la sua effettiva azione politica, trovino terreno per germogliare.

Giovanni Collot

Demetris Christofias, leader del partito comunista Akel, ha vinto al ballottaggio di domenica 24 febbraio le elezioni presidenziali cipriote, battendo il rivale conservatore Ioannis Kassoulides.
Le elezioni hanno riguardato solo la parte greca, nel sud dell’isola, a nord esiste la repubblica turco-cipriota, riconosciuta solo da Ankara. Cipro infatti è divisa in due dal 1974, anno dell’invasione militare turca a seguito del fallito golpe dei nazionalisti greco-ciprioti.
Uno dei primi a complimentarsi per la vittoria è stato Mehmet Ali Talat, presidente della parte turca dell’isola. I due leader si dovrebbero incontrare a breve per avviare le trattative per la riunificazione di Cipro. D’altrone l’Akel, da tempo intrattiene rapporti privilegiati con i sindacati turco-ciprioti, e in passato il neoeletto si è incontrato più volte con il leader turco-cipriota.
Christofias è un personaggio particolare, è stato nove volte presidente del Parlamento e da 20 anni segretario generale dell’Akel. Si è laureato in scienze sociali in Unione Sovietica, si dichiara orgogliosamente figlio della classe lavoratrice, ma ha chiarito immediatamente di non voler cambiare l’economia di libero mercato che vige sull’isola. Molti scommettono su di lui come chiave di volta per sbloccare la situazione cipriota. Il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso ha detto che c’è ora «l’opportunità di superare il lungo stallo sulla questione cipriota» e ha incoraggiato Christofias «ad avviare senza indugi i negoziati sotto l’egida dell’Onu» per «un accordo risolutivo». Sembra che anche sull’altro fronte, quello turco, ci sia un qualche spiraglio per iniziare questa trattativa. Dal muro che taglia in due Nicosia passano questioni diverse ed importanti, anche l’eventuale adesione della Turchia alla Ue. Il muro rappresenta il maggior ostacolo nel processo di adesione della Turchia alla Ue, dal momento che Ankara si è rifiutata di aprire i suoi porti e aeroporti a navi e aerei greco-ciprioti. Si sta creando un clima più disteso anche tra Grecia e Turchia, nell’ultimo incontro tra il premier greco Kostas Karamanlis ed il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, quest’ultimo aveva espresso ottimismo sulla questione cipriota.
Equilibri e strategie internazionali dipendono molto dall’evolversi delle vicende nelle piccola isola mediterranea(appena 700mila abitanti), che dal 1° Gennaio di quest’anno fa parte dei paesi della zona euro. La pace è un susseguirsi di piccoli passi, nel quadro mondiale anche Cipro è importante e a Bruxelles questo lo sanno.
Il muro di Berlino è caduto grazie alle fine del comunismo nell’Europa orientale, potrebbe ora essere un presidente comunista ad abbattere l’ultimo muro d’Europa.

Federico Nastasi

Storia del piatto:
La spiegazione più diffusa sull’origine della Feijoada è che i signori delle fazendas del caffè, delle miniere di oro e delle piantagioni di zucchero, che si servivano largamente della manodopera schiavista, dessero ai loro schiavi i resti del maiale dopo la macellazione. La cottura di questi ingredienti con fagioli neri e acqua, avrebbe dato origine alla ricetta. Tuttavia questa leggenda non trova fondamento né nella tradizione culinaria e tanto meno nelle fonti storiche.
Difatti l’alimentazione dello schiavo era basata più su farina di manioca o di mais con scarso companatico e con fagioli cotti con sale e grasso animale. Tuttavia carenza alimentare e carestie erano problemi con cui le classi soggiogate dovevano spesso confrontarsi, non essendo rari i decessi per malnutrizione. A volte, dopo un raccolto produttivo, il padrone poteva anche regalare un porco intero alla famiglia di schiavi, ma questa era un’eccezione. La carne, solitamente non era all’ordine del giorno nel menù del lavoratore della fazenda. Inoltre una ricevuta di acquisto della Casa Imperiale, datata 30 Aprile 1889, dimostra che già nello stato di Rio de Janeiro si consumavano tagli vari di maiale, dalla salsiccia alla lonza, il che dimostra che queste parti non erano affatto considerate scarti di cui liberarsi ma erano consumati anche dalla classe padronale brasiliana.
Per cui è più probabile che l’origne della feijoada sia proprio… da influssi europei. Alcuni credono che possa derivare da ricette portoghesi della regione dell’Estremadura, della Beira, di Trás-os-Montes o del Duoro, che mescolavano fagioli di vario tipo (ad esclusione di quelli neri che sono di origine americana) con salsicce, orecchie e piedi di maiale. Vi è inoltre chi sostiene che il feijoada derivi da un altro piatto europeo, come il “cassoulet” francese – che è altrettanto preparato con fagioli – o come il cozido madrileno, o la “casseruola” o “casserola” milanese.
Qualsiasi sia comunque l’origine della ricetta, essa era di sicuro già diffusa nel XIX secolo in Brasile, come testimonia un articolo del Diario de Pernambuco (Recife) in cui si annunciava che l’Hotel Théâtre recentemente inaugurato offriva “Feijoada à brasileira” tutti i venerdì.
FeijoadaLa ricetta:
INGREDIENTI(6 persone):
½ Kg di fagioli neri di tipo messicano
100g di pancetta
200g di salamino
200g di lonza di maiale
200g si salsicce di maiale
1 cipolla grande
½ testa di aglio
Pepe nero
2 foglie di alloro
1 pizzico di cumino
3 cucchiai di olio
Riso q.b.
Farina di manioca

PREPARAZIONE
Mettere a bagno per almeno 12 ore i fagioli neri in una terrina piena di acqua.
In una pentola da minestra scaldare l’olio, soffriggervi la cipolla a pezzettini, l’aglio e quando il soffritto è dorato aggiungere tutte le carni tagliate a cubetti. Una volta fritte le carni, aggiungere i fagioli, le spezie, e abbondante acqua. Continuare a mescolare per evitare che il fondo della pentola bruci ed aggiungere acqua. Lasciare cuocere a fuoco lento per 3 – 4 ore finché il sugo diventa marrone e denso. Servire con riso bianco bollito, e un poco di farina di manioca o pangrattato. Ottima bevanda di accompagnamento è la caipirinha o il vino rosso.

Francesco Gallio

Kosovo, ovvero dal lontano 1389 il luogo simbolo della resistenza contro l’Impero ottomano per la Serbia e diventatane poi una provincia autonoma. Una regione però a maggioranza albanese e musulmana che, soprattutto negli anni più recenti, non ha mai rinunciato alle mire indipendentiste fino a ottenerle unilateralmente. Una zona sconosciuta al resto del mondo fino a che Slobodan Milosevic alla fine degli anni Ottanta lanciò misure repressive contro questa provincia, arrivando nel 1990 alla revoca della sua autonomia attraverso controlli di polizia, chiusura dei giornali in lingua albanese e al licenziamento di professori universitari non serbi. Naturalmente la resistenza della componente albanese non tardò a farsi sentire, prima in forma non violenta sotto la guida del partito LDK di Ibrahim Rugova ed in seguito attraverso atti terroristici compiuti i separatisti albanesi dell’UÇK, finanziati anche dai traffici d’armi e di stupefacenti. Nel 1999 la situazione in Kosovo tornò sotto le luci dei riflettori e portò all’intervento NATO in Serbia. Ciò mise definitivamente il Kosovo al centro del dibattito internazionale e  fu la premessa per l’avvio dei negoziati di Rambouillet, che sostanzialmente si rivelarono poi un mezzo fallimento soprattutto a causa dell’ambiguità della formula prevista. Era stata sì decisa la futura creazione di uno Stato multietnico sotto l’egida internazionale, ma si sanciva il necessario accordo tra Serbia e rappresentanti dello Kosovo per qualsiasi decisione inerente a tale trasformazione. Questo fin da subito risultò impossibile per l’inconciliabilità delle posizioni: la Serbia infatti non ha mai ceduto sull’indipendenza completa, anche se la sua influenza è gradualmente diminuita. Dal 1999parte della sovranità serba fu indebolita poichè il Kosovo fu posto sotto il protettorato internazionale di  UNMIK e NATO, e con gli anni la voglia di indipendenza ha preso sempre più vigore soprattutto perché si voleva uscire da una situazione di stallo.  Nel novembre 2007, dopo ulteriori fallimenti di un accordo sullo status del Kosovo, alle elezioni ha vinto Hashim Thaci, ex capo guerrigliero dell’Uck. Sotto il suo governo albanofono, la decisione quasi immediata è stata la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, proclamata ufficialmente il 17 febbraio scorso con tanto di bandiera e stemma, anche se ufficialmente secondo il diritto internazionale e l’ONU, il territorio kosovaro è tuttora definito sotto sovranità serba. Tale avvenimento ha gettato le basi per una conflittualità internazionale che vede impegnate da una parte le Nazioni che hanno riconosciuto l’indipendenza, prima fra tutte gli Stati Uniti e dall’altra invece di quelle che mai la riconosceranno: in primis ovviamente la Serbia, ma anche altri Stati quali ad esempio Russia e Spagna fortemente preoccupate dell’effetto che tale situazione possa avere sulle minoranze presenti nei loro territori. Paradossalmente, anche all’interno dello stesso Kosovo neocostituito, la zona a nord del fiume Ibar a maggioranza serba minaccia di chiedere il ricongiungimento alla madre patria.“Attenti, si rischia un effetto domino” è stato, e non a torto, il primo commento di Putin: l’ormai, anche se solo formalmente, ex presidente russo vede il fantasma della Cecenia ma anche delle regioni dell’Abkazia e l’Ossezia che hanno dichiarato più volte (l’ultima il 5 marzo scorso) la volontà di staccarsi dalla Georgia e che in questo modo comprometterebbero l’equilibrio geopolitico dell’area. Molte sono le situazioni che potrebbero prendere spunto dal Kosovo per rinvigorire e legittimare le proprie richieste. In Scandinavia, ad esempio, il governo delle Fær Øer ha affermato la volontà di voler fare entro il 2010 un referendum, come primo passo verso la piena indipendenza: l’autonomia politica ottenuta dalla Danimarca nel 1948 non basta più. Lo stesso sta pensando di fare la Groenlandia, anch’essa dotata già di un governo ma che intende essere sia padrona del proprio destino politico che di quello delle ricchezze del sottosuolo.  La Spagna si è affrettata a dichiarare la sua opposizione al Kosovo, soprattutto dopo l’entusiasmo del governo regionale basco, guidato dal Partito Nazionalista Basco (Pnv), che danni persevera nel richiedere che tale trattamento sia riservato anche al loro territorio. Senza dimenticare le richieste, presenti anche se meno assidue, dei Catalani. Anche la Scozia ha tentato in qualche occasione di approvare un distaccamento dal Regno Unito, ma il progetto è stato tralasciato per un lungo periodo, anche se adesso sta riprendendo forza. Allontanandosi dal contesto Europeo, altro esempio si può trovare in Bolivia: il precedente kosovaro preoccupa il presidente Evo Morales, che si trova da mesi di fronte all’insurrezione dei cinque dipartimenti dell’Est: essi hanno una base etnica diversa da quella massicciamente indigena che lo ha plebiscitato a Ovest,  ma sono allo stesso tempo i più ricchi, e quindi i quasi esclusivi fornitori proprio di quegli idrocarburi con cui Morales vuole finanziare la sua politica. I cinque dipartimenti hanno adottato un’autonomia politica mai riconosciuta dal governo centrale. In Canada, una parte del Quebec vorrebbe l’indipendenza, ma entrambi i referendum hanno dato esito negativo. E chi non ricorda poi il Kashmir, stanco del perenne stato di emergenza e desideroso di amministrarsi autonomamente? Oppure gli Uiguri e i Mongoli in Cina? Numerosi sono dunque i casi che potrebbero essere analizzati e che perciò destano la preoccupazione della comunità internazionale. Proprio per questo il caso del Kosovo ha aperto nuovi scenari e potrà essere preso come punto di riferimento per le generazioni presenti e future in quanto simbolo della possibilità di affermazione delle minoranze.

Lisa Cuccato

Il nuovo libro di Roberto Covaz presentato all’Isontina – Storie e ritratti di sessant’anni di confine

La piccola sala della Biblioteca Isontina è gremita di gente impellicciata e ben profumata: presentano un libro sul confine! Qualche manifesto e un buon passaparola hanno convinto molti goriziani a uscire di casa, per andare a riascoltare qualche aneddoto frontaliero.
Secondo il suo editore, Roberto Covaz affronta ogni pagina con curiosità e umiltà. Il suo libro nasce da una paziente ricerca di soggetti e di situazioni, che l’autore ha trovato nei luoghi più insoliti: nel cimitero di Merna una tomba è stata “profanata” dal confine frettoloso che l’ha tagliata a metà; dal campo dei fratelli Zoff , passato alla Jugoslavia nel ’47, di notte proveniva il rumore degli spari dei graniciari contro chi voleva fuggire in Italia; nel “museo del confine” alla Transalpina, il pezzo forte è la grande stella rossa di lamiera, il simbolo socialista che Tito aveva «sbattuto in faccia ai goriziani» appendendolo alla stazione. È nata così una bella collezione di ritratti lucidi, dipinti lungo la frontiera, che sanno essere impietosi pur senza emettere giudizi. Mi ha colpito molto la vicenda di Rado, strillone del Piccolo accusato di essere un collaborazionista di Tito, uno dei responsabili delle deportazione di centinaia di goriziani morti nelle foibe. A questo proposito, Covaz scrive: «A Gorizia, forse per questo passato di spie, resiste purtroppo ed è diventata un’incrostazione della città la diffidenza verso tutto quello che non è goriziano».

L’incontro scorre via veloce. Paolo Rumiz, giornalista triestino di Repubblica, ripercorre i passaggi più curiosi. Sfoglia le pagine e segue la storia di Roberto – nel libro, Covaz racconta in terza persona alcuni episodi della sua vita –  il protagonista del libro che cresce con il confine e oggi lo ha visto sparire. Tra rievocazioni e aneddoti, “Niente da dichiarare” non dimentica di volgere lo sguardo a presente e futuro di questa terra. Gorizia e Nova Gorica: «perizoma e doppiopetto». Gli sloveni «si sono disfatti dei pesanti paltò dei graniciari e si sono trovati con i perizoma delle ballerine dei casinò». Di là si va in bicicletta. Ci sono giovani disposti a rinunciare a una domenica pomeriggio al mare per tenere aperto il museo del confine e raccontare la storia della loro città anche ai turisti italiani. «Gorizia, invece, li dimostra tutti i suoi anni. Si ostina a considerarsi un aristocratico al quale certi riguardi sono dovuti in onore di quel trapassato remoto che nessuno sa più coniugare, senza accorgersi che intorno a lui il mondo cambia, corre, si adatta».

Quando, comprato il libro, ho letto queste parole, ho ripensato a quel pomeriggio in biblioteca. La gran parte del pubblico era anziano, curioso di riscoprire qualche tratto comune della sua giovinezza. Immagino che abbia provato un po’ di sconforto quando, alla fine dell’incontro, l’attore goriziano Gianfranco Saletta lo ha salutato con queste parole: «Gorizia deve svegliarsi. Uscire dall’isolamento in cui continua a chiudersi, farsi più intraprendente. Comprare “Niente da dichiarare” significa sentire questa necessità. Siete voi giovani la forza che può portare al cambiamento! Voi che dovete arrabbiarvi, rovesciare le scrivanie!». Ma gli unici ragazzi presenti in quella sala piena eravamo noi, cinque o sei studenti del Sid, nessun goriziano.
Ci siamo scambiati un’occhiata perplessa.

Francesco Marchesano

Besede, besede, besede sta prepevala slavna italijanska pevca Mina in Alberto Lupo v davnih sedemdesetih letih. Naslov te slavne in nepozabljive pesmi se dobro ustreza z vsemi načrti, ki naj bi peljali do prekomejnega sodelovanja tukaj v Gorici. Težko bi bilo jih našteti vseh. Pomislite, da že leta 1999 London School of Economics je priredila načrt dolg okoli 180 strani prav o tem argumentu. Nima smisla povedati, da nič, ali skoraj nič od vsega tega, ni bilo izpeljano.
Treba je citirati dva posebna projekta, ki nista nikoli bila izpeljana. To sta evropska prekomejna univerza in prekomejna bolnica.
Prvi načrt, ki nas zanima od blizu (če bi bil izpeljan), je bil mišljen že zdavnaj, kajti prvi pogovori o tem so se vršili med misleci t.i. goriške civilne družbe že v polovici devetdesetih let. Prvotna ideja je bila ustanovitev univerzitetnih in post-univerzitetnih tečajev v predelih že obstoječih univerz na obeh straneh meje. V sklopu tega projekta naša fakulteta Mednarodnih in Diplomatskih Ved naj bi imela centralni položaj in pomembnost. Jasno je, da ni bilo narejeno tisto kar je bilo mišljeno, a pravzaprav današnje univerzitetne politike se še bolj oddaljujejo od teh idej. Vse to je potrjeno, če pomislimo, da niti eden izmed vseh različnih univerzitetnih curricula ne predvideva tečaj slovenskega jezika! Drugi velik načrt, ki je bil pripravljen a potem ni bil izpeljan je projekt prekomejne bolnice. Morda vsi ne vedo, da je razdalja med bolnicama v Gorici in Novi Gorici le 300 metrov. Ideatorji tega projekta so se nanašali prav na te fizične podatke in na potrebo, da se ustanovi neko specializirano zdravstveno strukturo. Pomislili so na združeni bolnici, kateri bi bili povezani s podzemnim tunnelom, ki na tak način bi omogočil hitro izmenjavo podatkov. Tu, če mogoče, je položaj še bolj zapleten in členkovit od prejšnjega. V tem slučaju, poleg zakonodajnih in strukturalnih težav so se pridružile še politične ovire, saj velik del mestne in deželne desnice je od vedno ideološko nasprotoval ideji resničnega sodelovanja z mestom Nove Gorice v zdravstvenem področju. Tako obnašanje izhaja iz očividnih ideoloških vzrokov, pravzaprav omejenosti ideologije; a tudi zaradi ideje o neki domnevni veličini mesta Gorice. Tako dandanes projekt ni samo propadel a deželni odbor se je odločil, da se bo moralo ponovno zgraditi goriško bolnico in to v točki ki je popolnoma izven središča in oddaljena od meje (območje železniške postaje).
Lahko bi se še mnogo povedalo o vseh načrtih, ki niso bili izpeljani, a se bom ustavil tu. Hotel bi vas samo spomniti, da projekt, ki najbolje predstavlja prekomejno sodelovanje med Goricama je avtobus, ki povezuje mesti… Zdi se mi, da je to zelo malo.
London School of Economics trdi v svoji raziskavi, da bodo morale biti izpeljane resne politike sodelovanja, če ne bodo stroški vključitve Slovenije v Evropsko Unijo in v območje Schengena višji od koristi. Mnenja sem, da čas je že minil, tudi če upam, da to ni res.

Politika župana Romola in njegovega odbora, morda zaradi zvestobe do dela desniških volivcev ali še slabše do ideologije, je omejila Gorico v praznovanjih vstopa Slovenije v Schengensko območje. Še nekaj manj kot mesec dni in meja med državama ne bo več obstajala, če ne v mislih in v čustvih ljudi. Na žalost pripadniki goriške politike niso še dovolj zreli, da bi lahko porušili tale psihološki zid.
Obnovimo: Slovenija vstopi tri leta in pol od tega v Evropsko Unijo, veliko hrupa do toliko dočakane razširitve Evrope, do vstopa držav vzhodne Evrope. Gorica postane center in most te pomembne faze tranzicije, Transalpina postane eden izmed simbolov, ne samo nacionalen a temveč tudi evropski. Tedanji predsednik evropske komisije Prodi počasti padec tistega zida, ki toliko je zaznamoval politično razdelitev. Prisotni so bili na Transalpini, prava srednja točka, vsi pripadniki glavnih političnih strank Italije in Slovenije. Umetna točka razdelitve postane sedaj naravna točka srečanja. A lokalno nič se ni spremenilo. Razložim vam bolje, leto 2004 je bil poglavitni datum za mednarodno politiko Italije in za celo Evropo a letošnji december bo še bolj pomemben za Gorico in zgleda da prav ona je edina, ki sploh se ne zaveda o tem. Tri leta od tega je bila predvsem Slovenija, ki je imela glavno vlogo, saj je dokončno vstopila v klub evropskih držav. To je stanje, ki samo 20 let od tega si ga ni niti domišljala. Nedvomno na makropolitičnem nivoju evolucija je koristila tudi Italiji, a lokalno je Gorica samo spremenila stanje nekaterih mejnih prehodov, s tem da je sedaj mogoče se peljati skozi tudi samo z osebno izkaznico in je priredila nekaj neuradnih srečanj med lokalnimi upravami držav. V konkretnem nič novega za goričane, ki so imeli prepustnico, res nič. Samo enostavni italijanski državljani, ki se niso rodili v Gorici, kot sem jaz, so lahko pridobili kako večjo korist z razliko od prej, saj sedaj lahko doživljajo oba mesta, ki v resnici sestavljajo en sam mestni aglomerat, z nepretrgano zvezo območja, ki jo je oviral v zadnih desetletjih samo obvezni prehod Casa Rossa.
Naslednjega meseca bo sprememba dokončno pod očmi vseh, Gorica bo tako lahko pridobila tisto kar pred stoletji je bil svoj naravni izliv. Zopet se bo spremenil urbanistični zemljepis mesta in zopet se bo center premaknil. Piazza della Vittoria bo vedno več Travnik in Postaji bosta postali 2, tako da bo definicija Gorizia C.le imela nek pravi pomen. Prebivalci obeh Goric bodo lahko ugodno uporabili tole povezavo.
Kako pa reagira župan na vse te novosti, ki bodo zainteresirale Gorico? Logično z hladno prekomejno politiko, ki postane mrzla, če pomislimo na delo, ki ga je izpeljala prejšnja uprava. Dal vam bom primer: vsakega drugega novembra je bila navada slaviti dan mrtvih skupaj na obeh straneh meje. Letos, prav v ključnem trenutku, ko se je moralo določiti, kje bo potekalo glavno praznovanje, župan Romoli se je odločil da letos ni imelo nobenega smisla slaviti skupaj. A Ljubljana ni oddaljena od Gorice in gotovo odmev goriške ošabnosti je vplival na izgubo glavnega praznovanja. Ni mogoče slaviti resni padec te meje pri Casa Rossa, ko obstaja Piazza Transalpina. To je trg, ki se nahaja popolnoma v Italiji in ni skupen prostor.
Ni čudno, če bo Trst, mesto, v katerem bodo potekala praznovanja v spomin padca meje, kajti župan Di Piazza se je dokazal veliko bolj sposoben in nagnjen do politike približanja med državama.
Naslednjo povletje predsedništva evropske unije pripada Sloveniji in že ministra D Alema in Rupel sta se menila o slučaju, da bi se lahko priredilo serijo mednarodnih razgovorov prav na goriškem območju; a če se bo nadaljevalo sedanjo obnašanje nezaupanja, Gorica se bo tako lahko zopet vrnila v dolgotrajno spanje, potem ko se je začasno prebudila prvega maja leta 2004.

 Iztekajo se še zadnji trenutki, preden bo Slovenija postala polna
članica Schengen območja, strani Piccola so polne vsakodnevnih diskusij lokalnih italijanskih in slovenskih politikov, ki se pogovarjajo o podrobnostih praznovanja, o lokacijah in o Beli noči. Radiji, časopisi in televizijske hiše prepuščajo besedo strokovnjakom in prvim možem države; razmišljajo o Gorici in Trstu, kot potencialna nova centra v Evropi; se sprašujejo o kulturnem pomenu podrtja meje, katera je predstavljala neizmerno razdaljo med dvema mestoma, siamskima dvojčkoma, tako drugačna, kljub neizmerni bližini.
Toda, kaj mislijo Goričani in Novo goričani, kakšna je njihova izkušnja na meji, s Slovenci, Italijani in EU. Jih tematika zanima, ali le  bežno zaznamuje mestni vsakdan. Z zanimanjem študenta prvega letnika, nevedneža kakšno mesto je to, sem se podal po goriških ulicah.

GORICA – Gospa, ki vodi trgovino z živili, je z veseljem pristala in odgovorila na moja vprašanja. “Rodila sem se leta 1945 v Italiji, toda le nekaj let pozneje se je moj dom znašel na drugi strani meje”.
Kakšno je bilo vaše otroštvo v Sloveniji?
“Tisto, česar se spominjam je velika, velika beda. Nova Gorica se je zidala, bila je samo revščina. Takoj, ko mi je uspelo sem odšla v Italijo k možu, on je bil tudi Italijan rojen v Sloveniji, a se je preselil že nekaj let prej.”
Kakšen je vaš odnos s Slovenci danes?
Kaj mislijo, po vašem mnenju Goričani?
”Imela sem priložnost spoznati njihov položaj, zato jih razumem in spoštujem: govorim slovensko, veliko, ki jih pride v trgovino se raje obrnejo name v svojem jeziku. Tukaj so ljudje splošno odprti, boli pa me, ko slišim govorit površinsko, npr. sciavi! (so Slovani, itd.) Sama se počutim Italijanka, žal mi je, da moji nečaki obiskujejo slovensko šolo v Gorici.”
Kaj se je spremenilo od leta 2004 z vstopom Slovenije v EU? Kaj se bo zgodilo sedaj, s popolno sprostitvijo meje?
”Sem malo zaskrbljena, saj medtem ko mi postajamo vse revnejši, Nova Gorica se širi, veliko Italijanov prečka mejo za nakup mesa in bencina, saj je ceneje, ali pa gredo igrat v casino. Kaj imamo v Italiji zanimivega? Moj brat, nekaj let mlajši od mene, se je odločil, da bo življenje nadaljeval v Sloveniji: sedaj ima lep kmečki turizem, zelo obiskan. Oni postajajo gospodje, mi pa vedno bolj revni, obratno kot nekoč.”
Obisk stranke poživi intervju, posebno ob vprašanju o prihodnosti Gorice po vstopu Slovenije v Schengen območje.
Stranka: “Kakšni gospodje! Vsi bodo prišli sem! Leta 2004 sem skočil pogledat praznovanje, bilo je veliko Italijanov blizu meje, na trgu pred železniško postajo. V Jugoslaviji – torej Sloveniji, jaz jo še vedno tako imenujem, so ljudje bili skoraj skriti za steklom železniške postaje: so se bali? Ne vem, kaj se bo zgodilo, ti kar zbiraj mnenja, toda potrebno je samo počakati in videlo se bo. Seveda ne bomo več obmejno območje, izgubili bomo veliko olajšav: ampak Evropa je želela tako.«

Glavna skrb vseh sodelujočih je bila, da niso dovolj obveščeni.
Opazil sem, da v ozadju navidezne nezainteresiranosti nekaterih in
četudi ne manjka predsodkov, so Goričani zelo pozorni na usodo svojega »vrta«.
Uslužbenec bencinske črpalke je pomiril: »Hvala pokrajinski olajšavi, cene ne bi smele preveč narasti, tudi zato, ker na drugi strani meje se cene dvigajo.« Seveda najmanj zaskrbljeni so mladi. Doprinos lokacije Gorici, obvezen prehod za ljudi in stvari, bo sedaj izginil, potrebno so nove ideje in iniciative.
Tega ni rekel politik, temveč natakar.

NOVA GORICA – Iz Gorice ni težko doseči drugo stran, da bi izvedel kako živijo zadnje dni napol zaprte meje: skoraj brez zavedanja se znajdeš z nogo na “oni strani”, kot za igro prečkaš narisano mejo na trgu pred železniško postajo. S pomočjo Dimitrija sem zakorakal naproti “zemlji casino-jev”, domovanju številnih zabave želih Italijanov.

Kolesarska steza, ki pelje proti centru Nove Gorice je nenavadno polna, gospa blizu tridesetih  spremlja svojega živahnega sina na nogometni trening.

Dobervečer, govorite italijansko? Alenka nam povsem navdušeno pove nekaj utrinkov svojega življenja: “Da, govorim italijansko, tako kot moj sin, ki se jo je naučil ob gledanju risank na italijanski TV. Sem bolj Jugoslovanka, kot Slovenka. Očeta imam iz Kosovega, mati pa iz Bosne.” Zato, ko jo vprašamo, kaj si misli o EU in nedavnim vstopom Slovenije v EU nam pove:” Mislim, da se ni spremenilo veliko: denar, ki smo ga nekoč pošiljali v Beograd, danes gre v Bruselj”. Odprtje meje ne predstavlja posebnih pričakovanj. “glede na to, da so v Italiji cene ob prihodu Eura bistveno dvignile, saj so se tudi pri nas, ampak veliko manj kot pri vas! So predvsem Italijani tisti, ki bodo imeli koristi, vse pogosteje prihajajo k nam se zabavati, še preveč! (smeh) Si mislite, država je rezervirala nekaj sto parkirnih mest italijanskim obiskovalcem Casino-ja Perla, jih odvzela domačinom. A kljub tem malim stvarem so  medsebojni odnosi dobri”.

Resnična skrb Slovencev, deset dni pred “Schengensko nočjo” je druga: kdaj bodo lahko ljudje prosto prečkali mejo, “veliko Kitajcev, Romunov in Afričanov – vsi, ki jih vi imate odveč – bodo imeli priložnost vstopiti v Slovenijo”.

Tak pogled je povsem paradoksalen, nekaj metrov oddaljen od Italije, ki se boji vala imigracije iz vzhodne Europe.

Enakih misli je mlad par, ki jih srečava ko sprehajata psa. “Velika lokalna težava je droga in država ne nameni nič denarja, da bi ga rešila; Nova Gorica je mesto preprodaje in odprtje meja vsekakor ne bo pripomoglo rešiti tega problema. Na splošno pa nam ni žal večje odprtosti: ko je režim Tita bil že v bankrotu, je Dinar veljal tako malo, da so nekateri v znak nespoštovanja , uporabljali bankovce za prižig cigaret. Danes je veliko boljše.” Živahno nam povejo nekaj besed o spominih na mejo: “Mejni policiji je bilo treba povedati vse, kar ni bilo prijetno. V Italiji se ni moglo kupiti več kot kilogram kave in ni bilo dovoljeno nesti več kot tristo tisoč Lir na mesec čez mejo: vse je bilo zabeleženo s posebnimi žigi v prepustnici. Mi, ki živimo ob meji smo bili celo na boljšem, saj Slovenci iz Ljubljane so lahko potrošil le polovico. Da smo si lahko dovolili nekaj več udobja smo skrivali denar tudi v rokave.”

Raziskovanje se nadaljuje proti nakupovalnemu središču “mesta park”, ki ga je Tito dal zgraditi po drugi svetovni vojni, kot izložbo vzhoda – komunizma, zahodnemu svetu. Na sredini trga se dve punci poslavljata. “Odprtje je potrebno in mladi to povsem razumejo, meje so del preteklega časa, samo še starejši, ki se še spominjajo fašizma so nezaupljivi. Ob vstopu v globalizacijo je potrebno sprejeti tudi težave, ampak korakamo v boljši svet.” Tina obiskuje  Politologijo na Univerzi v Ljubljani, povsem razume moja vprašanja toda raje odgovori v slovenščini; razume odlično, saj tako kot veliko mladih pogosto gleda italijanske programe, ki so znani tudi tukaj. Iz Italije Nova Gorica izgleda samo poceni restavracije in casino, vprašam jo, kaj si misli: “Normalno, da ni tako, veliko turistov obišče Kras in Postojnsko jamo, moje mesto gosti velikokrat pomembne kulturne dogodke, gledališke predstave in razstave: nikoli nisem videla enega Italijana, mogoče zato, ker ni veliko promocije. Jaz niti ne prečkam meje za ogled kulturnih znamenitosti, veliko pogosteje grem na morje ali v Devin.”

Tako, med eno igro v Perli in enim dnevom pod soncem, Euroregia se predstavi združena.

Francesco Marchesiano s pomočjo Dimitrija Brandolin

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