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Non deve apprendere nessuna conoscenza con spirito servile. L’ha detto Platone.

Nel mio piccolo, io sarei dovuto andare a lezione di Arabo oggi. Però non l’ho fatto.

Mi chiamo Rodolfo e sono a Gorizia da cinque anni. Lo direi un periodo lunghetto, anche se un anno ho deciso di giocarmi il jolly Erasmus. Non mi sono ancora ambientato, ma fortunatamente la stabilità non è più una priorità. Da quando mi sono immatricolato per la prima volta sono cambiate così tante cose che ho rinunciato persino a tenerle a mente. Ora, per sapere quanti e quali esami mi mancano faccio affidamento sul mio libretto elettronico. E sbaglio sempre.

Il punto, comunque, non è questo. Se scrivo questo articolo, e so che finirà in “stile libero” e non in “università”, è proprio perché non voglio muovere critiche ad alcunché di concreto e di modificabile. Se scrivo parlo di me, ed è perché mi sembra con ciò di riuscire a sfogare un senso di frustrazione e d’umiliazione che spero non mio solamente.

Il punto è questo: non sono andato a lezione di Arabo. Avrei voluto andarci, sapete, ma semplicemente non l’ho fatto. Perché da un po’ di tempo, a mio vedere, qualcosa si è inceppato nel senso del grande meccanismo generale, qualcosa si è inceppato ed a volte mi pare che sia quasi un portato biologico, il rifiutare di comprendere perché degli esseri umani di ventitré anni, l’età più vitale, l’età più fertile in un certo senso, debbano essere costretti ad imparare.

“Imparare”, capite? Ancora. Quando concluderò la laurea specialistica, avrò studiato per diciotto anni della mia vita, se a Dio piacendo sarò in orario, senza essermi perso troppo e stringendo i denti, come tutti. Diciotto anni (so che in questo momento non ci credete e state contando. Però è così. Pazzesco, eh?). E cosa mi sarà rimasto? Probabilmente la mia sola capacità di leggere e scrivere (sulla terza, il “far di conto”, ho già i miei dubbi). Non credo d’essere particolarmente stupido. Però quello che resta di ogni libro, di ogni esame, è un sorso un fondo un residuo, un po’ di cenere, un “non lo so”. Quali sono le clausole dei trattati x e y? Non lo so. Chi si ricorda anche solo i princípi basilari della statistica? Io no di certo. Eppure quello fu l’esame che preparai meglio, sei mesi passati a sudar duro e punteggi pieni ad ogni parziale. Non ci fu nemmeno bisogno dell’orale, ottenni la piena assoluzione con lode sulla fiducia. Ed è come se non avessi mai aperto quei libri.

E allora, perché continuare? Onestamente, voglio dire.

A volte ho l’impressione che tutto ciò serva ad autoalimentare una struttura. La laurea è richiesta per trovare lavoro, teoricamente. E non sto parlando della laurea triennale, perché quella è lo scherzo più sadico ed inutile che questo sistema ha giocato alla mia generazione. Ogni laureato è prezioso alla società. E non solo in senso ideale. Per ogni laureato ci sono soldi, molti soldi: i soldi dei professori e dei segretari, certo; ma anche delle imprese delle pulizie; dei portinai; delle librerie e delle copisterie; dei padroni di casa; dei baristi; dei locali; anche delle ferrovie, a ben vedere. Avete mai preso un treno di pendolari? Siamo troppi. Viene da chiedersi se non siamo per caso tutti le consenzienti vittime di un’illusione collettiva, di una grande mistificazione, di una presa in giro. Malthus riderebbe di gusto.

Diranno che ciò che si acquisisce all’università, o nell’apprendimento in generale, è un modus vivendi. Ed abbiamo imparato benissimo, ed a velocità sconcertante, tutto ciò che occorre, giusto? Giusto. Abbiamo imparato a non avere ragione; a temere ogni esame o ritorsione minacciata, vera o presunta; abbiamo imparato mezzucci e gelosie; ad essere più svelti degli altri oppure ad imitarli; soprattutto abbiamo imparato ad appiattire la nostra stupenda vivacità intellettuale sulla spenta corda d’una cultura sempre identica a sé, che spicca solo per la sua autoreferenzialità.

E per questo era già sufficiente un liceo. Ci fossimo fermati lì, avremmo impiegato solo tredici anni. Invece ne bruceremo diciotto, e forse ancora non avremo appreso nulla della vita, e continueremo a sonnecchiare, eterni adolescenti nella nostra bella cameretta, ed Almalaurea ci proporrà nuovi master. Perché non si finisce mai di imparare.

Però insomma, eccoci qui. Ci piaccia oppure no. L’inerzia è una cosa meravigliosa. Al quinto anno, teoricamente l’ultimo, con degli esami che hanno il nome di quelli già sostenuti alla triennale, e spesso con i medesimi professori. Almeno nel mio caso.

Così torniamo al punto di partenza. Ed avrei voluto andarci a quel corso di Arabo. Sul serio. E’ un ottimo corso, l’insegnante è davvero fantastica, e mi pare un’opportunità da non perdere. Magari alla prossima lezione sarò presente. Però oggi non l’ho fatto.

Rodolfo Toè

Rodolfo.toe@sconfinare.net

3 referendum popolari, tre bocciature: Dal “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, bocciato nel 2005 da Francia e Olanda, al trattato di Lisbona firmato lo scorso dicembre e respinto nuovamente dagli irlandesi. La crisi attraversata dal vecchio continente non accenna dunque a concludersi, e con il terzo colpo d’arresto è ormai chiaro il clamoroso  preoccupante cortocircuito fra le istituzioni europee e il proprio popolo.

Credo fermamente che non vi sia nulla da festeggiare di fronte a questa crisi senza precedenti. E’ da troppo tempo che i paesi membri come il mondo intero hanno bisogno di un’Europa forte, autorevole, indipendente: lo scenario di crisi internazionale che si sta disegnando in questi mesi, come i venti di guerra degli otto anni di amministrazione Bush, hanno visto un’Europa totalmente incapace di appoggiare, opporsi, o semplicemente incidere nel panorama mondiale e guadagnarsi il ruolo di guida nello sviluppo della pace, di politiche sociali e ambientali.

Ma la colpa di tale arresto non può certo ricadere sugli irlandesi, il cui rifiuto non è stato minimamente indagato dai media nostrani; o su francesi e olandesi, sul cui rifiuto forse bisognava riflettere un pochino di più. Certo, il fatto che l’1 % rappresentato dal popolo irlandese tenga in scacco i 26 parlamenti nazionali che hanno ratificato – o si apprestano a farlo – il trattato (serve l’unanimità dei paesi membri per l’applicazione) pone un serio problema di democrazia all’interno dell’Unione. Ma che questa, alla prova democratica dei referendum popolari (saggiamente evitati ove possibile), sia stata clamorosamente respinta in tempi e luoghi diversi, rappresenta un problema non da poco. Considerando che il rifiuto è stato espresso in maggioranza da giovani, donne, e lavoratori; forse si dovrebbe riflettere su che Europa vogliamo costruire con questo trattato. E che questi sia, in sostanza, una copia di quello che era stato presentato come un grande progetto di Costituzione europea, salvo poi tramutarlo in un tronfio e incomprensibile accordo che, proprio per la sua oscurità, era meglio far approvare in silenzio dai potenti e dai parlamenti… be, questi sono altrettanto gravi problemi di democrazia. Il trattato di Lisbona influenzerà pesantemente le nostre vite, incidendo sugli organi – parlamento europeo e commissione – che oramai producono la gran parte del corpo legislativo che il parlamento nazionale si limita a percepire. Ebbene, in Italia è stato votato all’unanimità in un caldo giorno d’estate, senza che la stragrande maggioranza dei cittadini non solo l’abbia letto, ma sappia almeno di cosa si tratta. Informare, capire, correggere, elaborare un testo convincente e perlomeno leggibile; affidare la sua approvazione ad un referendum comune a tutti i cittadini Europei, magari da svolgersi con le stesse modalità e tempi in tutto il continente… Niente di tutto questo è stato vagliato per uscire dall’impasse dei primi “no”. La scelta è ricaduta sulla via più facile, caratterizzata da un sostanziale deficit di democrazia. Che, tra l’altro, continua ad essere la strada prescelta: Ora aboliamo la regola dell’unanimità, secondo cui ogni riforma deve essere accettata da tutti e 27 i membri, affidiamoci – snaturandolo – al principio di “Europa a due velocità”, e approviamo in fretta e furia questo pasticcio incomprensibile che – parole del commissario UE McCreevy – “difficilmente una persona sana o a posto mentalmente lo leggerebbe dall’inizio alla fine”. Gli Irlandesi, si arrangino: facciamoli rivotare una seconda e una terza volta, magari, finché si decideranno a votare sì. Fortuna che siamo in Europa, l’avamposto democratico dell’intero pianeta.

Non credo che Irlandesi, Francesi o Olandesi siano anti – europeisti. Abbiamo un disperato bisogno di un’Europa forte. Di un’Europa, però, che si schieri dalla parte dei cittadini, invece che con le banche e le burocrazie. Di un’Europa che ascriva nel suo DNA il fondamentale requisito di essere “sociale”, che difenda e promuova il welfare state invece di liberalizzare i servizi. Un’Europa che sappia schierarsi all’unanimità e senza tentennamenti contro la guerra, che riannodi i fili perduti per la ricerca di un dialogo volto a risolvere i conflitti che insanguinano il pianeta. Che rifiuti categoricamente l’idea di una sottomissione alla NATO, che non permetta ai governi di Praga e Varsavia l’installazione di missili e radar statunitensi senza alcuna discussione concertata con i partner europei – e del resto scelta osteggiata dalla maggioranza dei governati -. Abbiamo bisogno di un’Europa che lotti contro la pena di morte, invece di riabilitarla tramite protocolli e articoli del trattato (art 2 paragrafo 2 della CEDU). Di un’Europa che parli di integrazione e accoglienza e non costruisca fortezze, o si appresti a votare la “direttiva della vergogna”, prevedendo la detenzione degli stranieri irregolari fino a 18 mesi prima dell’espulsione. Un’Europa che difenda e promuova le conquiste dei lavoratori del secolo scorso, invece di cancellare con un colpo di spugna la settimana lavorativa di 48 ore e la contrattazione collettiva.

Abbiamo bisogno di un’Europa che ritrovi se stessa, la sua identità, rappresentata da qualcosa di più di una moneta comune. Che riparta, utilizzando la democrazia non solo a parole. Che si dia nuove regole per essere più aperta, democratica e trasparente, rivedendo i meccanismi di elezione e di decisione dei suoi organi, in primis il Parlamento. La vitale necessità di una Costituzione, però, deve passare per una ridefinizione dell’idea di Europa che vogliamo costruire, e una vera e propria rifondazione democratica dell’Unione.

Matteo Lucatello
Matteo.lucatello@sconfinare.net
http://www.lucatello.it

Roma, 19 Ottobre: dallo studio Rai di “Che tempo che fa”,il leader del PD Walter Veltroni annuncia pubblicamente la rottura dell’alleanza fra il suo partito e l’IDV dell’ex pm molisano Antonio Di Pietro. I motivi addotti per giustificare questa decisione sono stati le differenze sui modi di affrontare molte delle questioni dell’agenda politica ed il modo con cui il partito di pietrino sta conducendo la sua opposizione al governo, “Distante anni luce dall’alfabeto democratico del centrosinistra”.

Lo strappo si è consumato così nel tempo di una breve intervista,cogliendo di sorpresa i vertici dell’Italia dei valori e suscitando stupore e qualche disappunto fra i parlamentari del PD stesso (vedi ad esempio Parisi). La mossa di Veltroni è qualcosa di inedito nella storia della sinistra italiana del dopo tangentopoli:mai era successo infatti che una rottura fra partiti alleati si concretizzasse all’opposizione (finora era sempre accaduto il contrario).Ai motivi già esposti nell’intervista dal leader del centrosinistra per spiegare questa decisione, nuova per una democrazia come quella italiana, ma che probabilmente in altri paesi sarebbe stata quantomeno nell’aria,ne vanno aggiunti alcuni e chiariti altri. È vero per esempio che le opinioni dei due capi su molte questioni di politica erano divergenti, ma sul modo di condurre l’opposizione al governo la differenza era più formale che sostanziale,da Di Pietro a Veltroni il modo di criticare le politiche del governo cambia nei toni,ma non nella sostanza. Bisogna dire che , se l’alleanza è esistita nessuna delle due parti ha mai cercato veramente una mediazione con l’altra che andasse oltre alle dichiarazioni di intenti fatte agli organi d’informazione;la rottura fra i due partiti si è consumata a partire dalla tanto discussa manifestazione chiamata “No Cav Day”,tenutasi l’8 Luglio in Piazza Navona ed organizzata dall’IDV,dopo la quale Veltroni aveva per la prima volta parlato di divorzio fra i due partiti,questa volta facendolo dagli studi di matrix. Da lì in poi l’intesa si è trasformata in coabitazione forzata,e si è deteriorata col passare delle settimane,anche per via della “recidività” di Di Pietro,che nonostante i richiami alla calma degli alleati non ha addolcito i suoi modi di fare opposizione. Va poi detto che la fine dell’alleanza appare come una decisione presa non di concerto con tutte le correnti interne al partito,ma solamente dagli ambienti più vicini al segretario (con ovvie zone di tacito consenso), come dimostrano i non pochi mugugni che la notizia ha sollevato. Questo cambio di rotta mira a dare una scossa, a tentare di ristabilire o forse è meglio dire a tentare di creare quell’ordine che manca all’interno del PD: Veltroni ha pensato di andare avanti da solo per poter dedicarsi esclusivamente a cercare di ricomporre i numerosi dissidi interni al partito, una volta per tutte, senza dovere allo stesso tempo occuparsi di correggere il tiro delle dichiarazioni dell’ormai ex alleato, sempre più accese e distanti dalle sue più controllate affermazioni . La leadership del capo del maggior partito di centrosinistra è infatti da alcuni mesi messa in discussione da vari esponenti del suo partito, e questa mossa mira a cambiare gli equilibri del partito,a ristabilire l’ordine all’interno della compagine democratica, a dargli ,forse, una nuova forma, come dimostra il commento di Rutelli,che all’indomani della frattura ha parlato della necessità di rifondare il partito. Un altro obiettivo che si vuole raggiungere con la rottura è anche quello di guadagnare i voti di coloro che non voterebbero il PD se questo fosse alleato con Di Pietro, e allo stesso tempo la misura punta a sottrarre voti alla stessa Italia dei valori, uscita secondo molti democratici troppo rinforzata dalle urne delle politiche. Qualora il PD si riuscisse a ricompattare e a perseguire un programma coerente, mostrando una sola volontà comune e non cento intenzioni e programmi diversi,allora sicuramente si potrebbe riformare l’alleanza con Di Pietro, visto che l’Italia dei valori nella riunione dei vertici di partito del 22 Ottobre non ha chiuso,anche se avrebbe potuto farlo, le porte ai democratici malgrado l’ex pm di mani pulite.

Il banco di prova per la strategia Veltroniana sarà quello delle elezioni europee, ma nel frattempo se si vorrà fare in modo che questa scelta non sia stata un grosso errore strategico per il PD e la sinistra in generale, bisognerà lavorare moltissimo sulla rifondazione del partito, dandogli almeno un minimo di coerenza interna, chiarezza e coesione di programma,ma soprattutto creare un partito unico e compatto e non un collage di anime e correnti diverse.

Matteo Sulfaro

Matteo.sulfaro@sconfinare.net

Per presentarvi Ramin Bahrami vi direi che è un pianista iraniano. Ma lui dice che non gli piace il pianoforte e che non è iraniano. Preferisce piuttosto definirsi un musicista cosmopolita. Suo padre era per metà iraniano e per metà tedesco, la madre turco-russa. Ramin Bahrami fa parte di quella generazione di Iraniani raccontata da Marjane Satrapi in Persepolis, quella che nasce sotto la monarchia dello Scià Reza Pahlavi, che vive la rivoluzione islamica di Khomeini, che cresce durante la guerra contro Saddam, e che si trova poi di fronte alla difficile scelta di lasciare il proprio paese per poter vedere realizzati i propri sogni. Ho incontrato Bahrami nei camerini del Teatro Verdi di Gorizia, dove ha suonato il 23 ottobre con l’Orchestra Sinfonica del Friuli Venezia Giulia diretta da Andres Mustonen. Il programma prevedeva il pezzo Oriente Occidente del compositore contemporaneo estone Arvo Pärt, la Sinfonia n. 2 di L. van Beethoven, e il Concerto n. 20 in re min. KV 466 per pianoforte e orchestra di W.A. Mozart, con al pianoforte R. Bahrami.

Bahrami nasce a Teheran nel 1976 e all’età di 11 anni lascia l’Iran per l’Italia accompagnato dalla madre, dopo che il padre Paviz, ingegnere sotto lo Scià, viene arrestato con l’accusa di essere un oppositore del regime. Paviz morirà in carcere nel 1991 e il referto ufficiale dirà per infarto, causa di morte diffusa tra i detenuti politici. Bahrami nel frattempo può studiare al Conservatorio G.Verdi di Milano con Piero Rattalino grazie ad una borsa di studio donatagli dalla Italimpianti. Dopo tre anni la borsa di studio viene però interrotta e seguono anni di difficoltà economiche per lui e la madre. Bahrami riesce comunque a diplomarsi nel 1997 e a proseguire i suoi studi, e comincia ad imporsi all’attenzione delle maggiori istituzioni musicali italiane e tedesche grazie alle sue interpretazioni di Bach, compositore per il quale nutre una profonda venerazione. Nel 1998 ottiene la cittadinanza onoraria in seguito al debutto al Teatro Bellini di Catania, e nel 2004 corona infine il suo sogno di gioventù registrando per la casa editrice musicale Decca le Variazioni Goldberg di Bach. Ora sta lavorando ad un progetto con la Gewandhausorchester di Lipsia, patria di. Bach, per eseguire nella stagione 2008/09 tutta l’opera di Bach per pianoforte e orchestra sotto la guida del Maestro Riccardo Chailly.

Quando lo incontro, Bahrami è contento di rispondere alle mie domande. Sono curiosa di sapere come sia nata la sua passione per la musica. Inizia a raccontarmi che già a Teheran amava ascoltare il grande violinista ebreo Jascha Heifetz e che, guidato da un vinile di Beethoven, dirigeva un’orchestra immaginaria dall’alto del tavolino del salotto. Dopo la rivoluzione, la musica divenne per lui un rifugio dal dolore della realtà esterna. Negli anni della guerra contro Saddam, egli avvertiva i bombardamenti prima ancora che ne venisse dato l’allarme e, a volte, invece di correre ai rifugi sotterranei, preferiva rimanere in casa ad ascoltare musica classica o a suonare il piano mentre fuori cadevano le bombe. Ricorda in particolare di quando Teheran era bianca sotto la neve e, mentre suonava, aveva visto dalla finestra una casa colpita da una bomba incendiarsi. La musica riusciva così a lenire il dolore e la paura dei momenti più duri. Sempre a Teheran iniziò l’amore di Bahrami per la musica di Bach. Lo scoprì a casa di una amica iraniana dove sentì un disco interpretato da Glenn Gould, celebre interprete bachiano canadese. Lo stesso padre Paviz, in una delle sue ultime lettere dal carcere, lo aveva incoraggiato allo studio di Bach, perché la sua musica lo avrebbe potuto aiutare molto. E Bahrami rivolge un invito ai giovani ad ascoltare più musica classica, e soprattutto Bach, per l’universalità della sua musica, valida in ogni tempo.

Gli chiedo se fece fatica ad adattarsi in Italia. Mi dice che no, che fin da subito ha potuto immergersi nella realtà italiana studiando in scuole italiane e circondato da bambini italiani. Proprio per questa sua esperienza è contrario al progetto del governo di creare nelle scuole apposite classi per stranieri, e crede invece che sia molto importante favorire la “polifonia” culturale, che in linguaggio musicale non significa altro che l’incontro armonico di voci diverse. Ramin Bahrami non ha più rivisto il suo paese da quando lo ha lasciato. Vorrebbe ritornare in un Iran democratico pur avendo nostalgia dei tempi della monarchia e dello Scià, a sua detta spesso ingiustamente frainteso in Occidente. Prima di salutarlo voglio ancora sapere se, per la sua storia e il suo vissuto, si considera un musicista politico. Mi risponde che si sente sì un musicista politico, ma solo in quanto portatore di un messaggio universale di pace. Peccato che giovedì 23, al Teatro Verdi di Gorizia, solo in pochi sono venuti ad ascoltare il suo messaggio.

Margherita Gianessi

Margherita.gianessi@sconfinare.net

 

Ogni romanzo, per definizione, racconta una storia. Oggi siamo sommersi da romanzi di ogni genere e da ogni parte del mondo. È però veramente raro trovare un libro che non si limiti a raccontare una storia, ma che presenti e condensi in sé tutto un Paese, tutta una società, tutta un’epoca. Questo è il caso di Palazzo Yacoubian, primo romanzo del medico egiziano ‘Ala Al-Aswani. In esso si raccontano le vite di diversi abitanti,ricchi e poveri, di questo palazzo nel cuore del Cairo, una volta sfarzoso, oggi decadente. Davanti a noi compaiono l’aristocratico decaduto amante della Francia e delle donne, il figlio del portiere che abita sul tetto e sogna di fare il poliziotto, ma finisce per unirsi ai Fratelli Musulmani, la sua fidanzata, che per lavorare deve sottostare alle “richieste” dei datori di lavoro, l’intellettuale gay, e molti altri personaggi. Al-Aswani è molto abile nel tenere l’attenzione sullo svolgimento dell’azione, alternando le varie storie, accompagnandoci un po’ nelle vite dei protagonisti e poi lasciandoli ad un certo punto, per poi riprenderli dopo alcune pagine. In questo modo, riesce a creare una narrazione corale in cui nulla è ridondante, nulla è fuori posto, e tutto fluisce dalla prima all’ultima pagina. Infatti, la caratteristica del romanzo è quella di essere, potremmo dire, “neorealista”: l’autore non compare, si limita a raccontare e ad ordinare i fatti, lasciando il giudizio su ciò che accade agli stessi personaggi e al lettore, che è chiamato a raccogliere tutti i segni nelle singole storie per capire la società egiziana nel suo complesso. Ma comunque l’intento del “documentarista” è ben chiaro: si tratta di un’accusa violenta alla società egiziana, in preda all’ipocrisia, alla corruzione , al classismo e ad un servilismo interessato. Per l’autore, l’Egitto moderno è governato da una classe dirigente per cui “quello egiziano è il popolo più obbediente che ci sia, perché è fondamentalmente pigro e accondiscendente; non occorrono brogli, l’Egiziano voterà per chi ha il potere in quel momento”. Ma nonostante i politici del libro dicano così, la corruzione c’è, ed è tanta, a tutti i livelli. Per qualunque posto di rilievo occorre pagare, ed è così che i poveri sono senza speranza, e la ricchezza si perpetua nelle mani degli stessi ricchi. Nelle figure di Taha, il povero figlio del portiere, e la sua fidanzata Buthyaina si legge la rassegnazione, il desiderio di uscire da un Paese che non può offrire niente a loro se non umiliazioni. Un Paese claustrofobico, chiuso deliberatamente ad ogni progresso. Ed è in tale situazione che la rassegnazione e la povertà si mescolano, e portano giovani come Taha ad avvicinarsi al fondamentalismo islamico, visto come promessa di una vita migliore, ma anche come protesta verso uno Stato, che si proclama laico, che ha fallito.

Quindi, questo romanzo ha una forte valenza sociale, anche per il fatto che Al-Aswani in Egitto è uno degli intellettuali più attivi nella protesta contro la dittatura di Mubarak. Ma oltre a presentare il Cairo del 2002, dà anche a noi, lettori occidentali di regimi cosiddetti “democratici”, motivi di riflessione. Dopotutto, i personaggi sono sì abitanti dell’Egitto contemporaneo, e in quanto tali ben caratterizzati; ma essi sono anche un esempio vivido di tutti i tipi umani. I desideri e i sogni di Taha sono gli stessi sogni e desideri di ogni adolescente, e così sono le sue delusioni e le sue angosce, che lo spingono a trovare riparo tra i Fratelli Musulmani; cerca un nuovo senso nella vita, e questa ricerca si mescola alla rabbia di non essere accettato com’è. Ogni giovane ci si può riconoscere, come si può riconoscere nel desiderio di andarsene di Buthyaina. Poi c’è il vecchio nobile nostalgico, amante delle donne e del vino, simbolo di un edonismo orgoglioso , ma anche della paura di invecchiare; e l’intellettuale gay, alfiere di una minoranza combattuta, ma nonostante ciò orgoglioso e dignitoso nella sua scelta di vita. Si potrebbe continuare così per molto, visto che ogni personaggio racchiude in sé un mondo; ma ciò che veramente conta è che questo dentista del Cairo, strenuo difensore della libertà di parola, è riuscito a creare un gioiello di letteratura, ben calato nella società in cui vive, ma contenente tutto l’universo delle passioni e dei difetti umani. Proprio come solo i grandi libri possono fare. ‘Ala è grande.

 

Giovanni Collot

giovanni.collot@sconfinare.net

“Bello il romanzo che hai scritto”.

Ragazzini salutano Saviano dopo la sua visita a Casal di Principe nel settembre 2007

 

“Saviano è un simbolo, ma non ‘il’ simbolo della lotta alla camorra. La lotta alla criminalità, però, la fanno polizia, magistratura, imprenditori che sono in prima linea ma non sulle prime pagine dei giornali. Spero che resti, con la sua immagine contribuisce alla lotta alla camorra, ma il contrasto viene fatto ogni giorno con azioni militari ed indagini. Non vorrei ridurre lo Stato e la sua azione ad una personificazione”.

Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, a Napoli (Campania), 17/10/2008

“Su Saviano sono stato frainteso. Ho voluto fargli un favore. Non è un bene per lui caricargli addosso tutte queste responsabilità, perchè non lo fanno vivere bene, non può essere lui da solo a farsi carico nell’immaginario collettivo della lotta alla criminalità”.

Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, a Saint-Vincent (Valle d’Aosta), 18/10/2008

 

La mafia, la camorra, prima di uccidere discredita. Prima di spargere sangue, getta fango sul suo nemico.

Saviano ha dimostrato quanto forte sia il potere della parola perché con Gomorra ha acceso grossi fari sugli affari che la camorra cerca di tenere nel buio più pesto.

Anche i Casalesi conoscono il potere della parola.

La usano per dialogare con il loro territorio, con il popolo omertoso e spaventato, per togliere stima e rispetto a chi non ha che un libro per combattere. Per questo, quando l’anno scorso nel 2007 Saviano è tornato nella sua Casal di Principe dopo la pubblicazione di Gomorra, ha trovato saracinesche abbassate e ragazzini strafottenti: «Hai scritto un bel romanzo», tutta fantasia, qui nessuno ti prende sul serio e ti appoggia.

 

Con gesti e parole, poi, la mafia dialoga con i poteri forti, e spesso ottiene risposta.

Anche se sicuramente non sono solo merito di Saviano i risultati ottenuti dallo Stato contro la criminalità organizzata in Campania ma pure di poliziotti, carabinieri, magistrati, imprenditori; anche volendo considerare lo scrittore come un parolaio, portabandiera di una lotta idealista alla mafia; comunque le parole del Ministro dell’Interno non sono solo solidarietà alle sue forze dell’ordine; non sono precisazioni utili a proseguire con strumenti migliori la lotta alla criminalità; non sono semplici “puntini sulle i” messi per amor di precisione; né tantomeno hanno l’obiettivo di ridurre il clamore mediatico attorno a un caso delicato che avrebbe bisogno (avrebbe bisogno?) di maggiore silenzio.

Sono una presa di distanza grave. Speriamo che i Casalesi non abbiano sentito perché potrebbero interpretare male; potrebbero intuire che per lo Stato perdere “un” simbolo della lotta alla camorra non sarebbe poi così grave, e agire di conseguenza. Speriamo che non abbiano sentito le parole pronunciate dal Ministro a Napoli, perché sicuramente la smentita, sussurrata dalla Valle d’Aosta, non è arrivata alle loro orecchie.

Mentre scriviamo la raccolta firme di solidarietà a Saviano promossa da Repubbica, che ha visto l’adesione di sei Nobel, ha superato le 200 mila adesioni. I teatri, le scuole e i cinema italiani sono diventati luoghi di lettura ad alta voce di Gomorra, il presidente Fini ha accettato di invitare lo scrittore alla Camera. Pare che l’Italia dunque non sia un paese insensibile verso chi rischia la vita per denunciare la corruzione diffusa tra cittadini comuni ed élites del potere.

 

Gomorra, si è detto, non è una scoperta dell’autore, molti dei testi si devono ai colleghi di Saviano(raccolti sul sito Nazione Indiana). Lui li ha sintetizzati e ha avuto la fortuna di incontrare la stupida industria culturale che cercando il fenomeno mediatico è stata fregata e ha permesso di mettere in pubblica piazza i nomi di Schiavone e di tutti i casalesi.

Evidentemente questo non toglie nulla al valore del libro, e sopratutto al sacrificio che fa un ragazzo di trent’anni, non vivere la sua età. La lotta alla criminalità è in primo luogo schierarsi, è una guerra di trincea, si sta da una parte o dall’altra, e chi sta con gli altri, che si chiami sistema(sistema, cioè ordine e non degenerazione!) o mafia o ‘ndrangheta.

E adesso? E adesso è sempre la stessa storia, ognuno deve fare la sua: lo Stato batta un colpo, dichiari la sua esistenza, le imprese continuino a denunciare il pizzo e investire in affari puliti, i maestri insegnino il senso dello stato e i genitori educhino al rispetto. Noi faremo la nostra, le rivelazioni di Saviano sono l’urlo di una generazione, è bene che la nostra non dimentichi, quando ci troveremo negli alti posti riservatici da una laurea al SID, da dove veniamo. In questo momento bisogna stare vicini a Roberto Saviano, il suo desiderio di andarsene è offensivo verso un paese europeo, sarebbe vergognoso se questo dovesse accadere: tutti abbiamo visto la faccia di Sandokan, o ci siamo indignati davanti all’intervista a Francesco Schiavone, ma facciamo emigrare l’autore perché non riusciamo a difenderlo, è lo Stato (non solo il Ministero dell’Interno, ma tutti noi nel più profondo senso collettivo) che si arrende.

Franderico Naschesano

Franderico.naschesano@sconfinare.net

Tbilisi inciampa sugli gli oleo-gasdotti stesi dall’Occidente

Scavando dietro la versione semplificata che ci hanno servito i media occidentali durante la crisi georgiana di quest’estate, si scoprono molte ottime ragioni per solidarizzare con la Russia. Dal progetto di scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca, alle rivoluzioni colorate georgiana e ucraina; dallo spettacolare riarmo della Georgia (che in aprile aveva incrementato del 28% il suo bilancio militare), al programma di adesione delle due repubbliche alla Nato: queste dimostrazioni di forza (?) orchestrate dagli Usa si sono trasformate in altrettanti buoni pretesti per l’offensiva russa di quest’estate. È innegabile comunque che, togliendosi questi sassolini dalle scarpe, la Russia abbia in realtà agito in difesa di interessi ben più forti.
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Ventitrè maggio millenovecentonovantadue.

Diciannove luglio millenovecentonovantadue.

In cinquantasette giorni, la mafia riuscì a colpire lo Stato, nelle persone di Giovanni Falcone, nominato da appena un giorno nuovo Superprocuratore antimafia a Roma, e di Paolo Borsellino, Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo.

Da quei giorni sono passati sedici anni e poco più, e quindi qualcuno si potrebbe chiedere come proceda la lotta alla mafia, della quale Falcone e Borsellino sono stati protagonisti ma non certo iniziatori, e soprattutto, purtroppo, non le ultime vittime.

Un modo originale di rispondere a questa domanda è volgersi in tutt’altra direzione. Il nostro Parlamento, si sa, non brilla per alacrità, ma riesce comunque a produrre una certa quantità di leggi e decreti, il cui impatto, quand’anche sembri dimesso, spesso si rivela travolgente.

Ed eccoci, al Senato, al nove ottobre duemilaotto. E’ al voto un decreto legge che ha come obiettivo l’aumento di retribuzione per i magistrati in sedi disagiate. Ma, come spesso succede, il decreto è infarcito di paroline e di articolini che c’entrano come i cavoli a merenda. La norma che ci interessa recita: ‘L’articolo 36 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n.160, come modificato dall’articolo 2 comma 8 della legge 30 luglio 2007 n.111, è abrogato.’ Semplice, no? Mica tanto: significa, sempre che il decreto in questione passi anche alla Camera -il che non è scontato- che la norma varata dal governo Prodi, che vietava ai magistrati inquisiti ma poi assolti –e a cui quindi era concessa una ‘ricostruzione di carriera’- di poter occupare comuque posti di vertice oltre i 75 anni di età, è abrogata; significa cioè l’esatto opposto: che quella categoria di magistrati può ora occupare posizioni di vertice; e non ce ne sono tanti, in questa situazione: soprattutto, ce n’è uno solo che si è imposto all’attenzione dei –pochi- media che se ne sono interessati. Questo personaggio si chiama Corrado Carnevale.

Ora, bisognerà sottolineare l’importanza di questo nome ai fini della nostra vecchia domanda: in che stato è la situazione dell’antimafia, sedici anni dopo Falcone e Borsellino?

E Carnevale è molto, molto importante. Chi è, dunque, e perché si cerca di porlo in pole position per il ruolo di Presidente della Corte Suprema di Cassazione, con una norma ad hoc? Il ruolo è ora occupato da Carbone, che andrà comunque in pensione nel 2010, cosicchè rimarrà per Carnevale una finestra di tre anni (lui, in virtù di questa ‘ricostruzione di carriera’, andrà in pensione nel 2013, a 83 anni), che potrà sfruttare agilmente per essere eletto presidente: è praticamente certo, perché è il primo per anzianità.

Ma ancor più interessante non è tanto la norma, ma il personaggio in questione. Il suo soprannome era, ai tempi di Falcone e Borsellino, ‘l’ammazzasentenze’. Cosa faceva? In qualità di presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, non faceva altro che essere molto pignolo: nel corso del tempo, ha cassato decine di processi a carico di mafiosi –ma non solo: persino uno contro la Banda della Magliana naufragò per sua decisione-, per via di difetti nella documentazione, come un timbro mancante, una virgola da spostare, una data imprecisa, e così via. Era inoltre nemico dichiarato del pool antimafia: sosteneva che quei magistrati fossero ‘sceriffi’, ‘armi rivolte contro i nemici politici della sinistra di matrice comunista’, e in particolare nutriva un odio profondo nei confronti di Falcone e Borsellino: li definiva ‘due incapaci’, e per lui Falcone era ‘faccia da caciocavallo’; il culmine lo raggiunse dopo la loro morte, quando esclamò: ‘Io i morti li rispetto, ma certi morti no.’ Giudizi confermati poi anche in tribunale.

Sì, perché Carnevale, che alcuni ben vedrebbero al vertice della Suprema Corte, il massimo organo della Magistratura, ha scavalcato la sbarra, passando da giudice ad imputato. Il processo a suo carico, iniziato nel marzo 1993, concluse una sua prima parte con la condanna (giugno 2001) della Corte di Appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa (pena: sei anni di reclusione, oltre all’interdizione dai pubblici uffici). La Cassazione lo ha poi assolto nell’ottobre 2002 con formula piena, ma tra le polemiche per la dubbia esclusione di alcune testimonianze chiave, inficiate solo dal fatto che erano scaturite da fatti avvenuti in camera di consiglio; fatti che sono generalmente considerati coperti da segreto, ma non così quando al suo interno si consumano dei reati: in tali casi, secondo molti, la loro segretezza dovrebbe venir meno.

Questo non è, com’è evidente, il pensiero della Cassazione, che, venute meno tali prove (alcune altre testimonianze, provenienti dall’esterno della camera di consiglio, sono state inspiegabilmente coinvolte nell’annullamento generale), ha assolto Carnevale, liberandolo da ogni accusa.

Ora, bisogna distinguere tra legalità e opportunità: legalmente, Carnevale è da considerarsi innocente; ma è forse opportuno non tanto lasciarlo lavorare, cosa che non gli si può negare, ma addirittura adoperarsi positivamente per spingerlo ad occupare il vertice massimo della Magistratura?

Ecco chi è Carnevale. A che punto è, dunque, la lotta alla mafia in Italia? E’ pretestuoso accostare quello che sta accadendo in favore dell’ormai ottantenne ‘ammazzasentenze’ ad un giudizio sullo stato attuale dell’Antimafia?

Francesco Scatigna

Francesco.scatigna@sconfinare.net

Ciao a tutti i lettori di Sconfinare!

L’Osservatorio Mediterraneo di Ricerca Operativa (O.Me.R.O.) sta cercando fra i giovani studenti del SID dei collaboratori. In particolare (da ex studentessa SID) mi riferisco alle moltissime tesi e tesine che siamo obbligati a scrivere per alcuni insegnamenti, sarebbe bello se alcuni di voi volessero mettere a disposizione le proprie ricerche su uno spazio internet.

OMeRO è un’Associazione Culturale di Geopolitica nata dalla passione di un gruppo di ex studenti del I Master in Geopolitica, organizzato dalla rivista Limes e dalla SIOI nel 2007.

L’oggetto principale della nostra indagine sono i rapporti fra i vari stati mediterranei, intendendo con questo non solo i Paesi rivieraschi, ma anche quelli del Mar Nero e del Medioriente.

A pochi mesi dalla nostra costituzione abbiamo deciso di dotarci di un blog (http://geopoliticalnotes.wordpress.com) come “finestra” verso il mondo, in cui cerchiamo di cimentarci con brevi pezzi di divulgazione che hanno lo scopo di portare all’attenzione dei lettori alcuni spunti di riflessione sull’area mediterranea. Il nostro interesse spazia dalle questioni politiche, economiche e sociali, alle tematiche più prettamente culturali, antropologiche e di costume. Il prodotto che ne viene fuori pian piano è un insieme di articoli, mappe, interviste, rassegne stampa e recensioni che possano aiutare chi legge ad approfondire anche per proprio conto gli argomenti che più lo interessano. Ogni due mesi circa è possibile leggere un focus monografico su particolari eventi o tematiche di importanza internazionale.

OMeRO propone, fra l’altro, numerosi incontri formativi fra giovani e studiosi, diplomatici ed esponenti militari per meglio facilitare la comprensione della complessa interdipendenza fra Stati, Regioni e Continenti. A questo proposito possiamo rimarcare l’incontro avvenuto con l’Ambasciatore Mistretta (ex ambasciatore in Libano) sulla tematica delle attuali sfide del Libano moderno (SIOI, 4 Luglio scorso).

Per avvicinarci ancora di più agli studenti ed alla realtà universitaria italiana, molti dei membri di OMeRO hanno iniziato una assidua collaborazione con Meltin’Pot, giovane rivista universitaria online.

L’Associazione, a meno di un anno dalla sua nascita, partecipa attivamente ai Focus Groups dell’ Osservatorio per la Sicurezza Nazionale (OSN), presso il Centro Alti Studi per la Difesa, riguardanti argomenti di cruciale importanza quali le Infrastrutture Critiche ed il Terrorismo e Criminalità nelle aree metropolitane.

Il “nostro” Mediterraneo è aperto a tutti voi! Saremo infatti felici di ricevere i vostri abstract o le vostre tesine (purchè originali), le recensioni su libri di tematiche inerenti al nostro obiettivo e quant’altro vorrete sottoporci!

Se siete interessati a collaborare con noi, ad aderire alle nostre iniziative e per mandarci il vostro materiale, vi invitiamo a scriverci all’indirizzo omeroinfo@gmail.com.

A presto!

Marianna Rapisarda

(per la redazione di OMeRO)

Capita a volte di vergognarsi moltissimo, per una gaffe, per un errore, per l’atteggiamento di un’altra persona. Io mi sono vergognata moltissimo la prima volta che ho letto il testo della legge 19 febbraio 2004 n.40 “in materia di procreazione medicalmente assistita”.
Il 12 e 13 giugno 2005, Radicali, Ds, Sdi, Rifondazione comunista e Associazione Coscioni sono riusciti ad indire un referendum, appoggiato da esponenti della stessa maggioranza come l’on. Fini, che verteva sull’abrogazione di quattro punti cardine della suddetta legge:
     – lo stop della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali
Secondo le direttive della 40/04 è vietata la produzione di embrioni per scopi scientifici, è vietato l’utilizzo degli oltre 25.000 embrioni congelati e destinati per decorso naturale a deperire in 5 anni dal congelamento (si tratta di embrioni soprannumerari, ovvero prodotti e conservati prima del 2004 per un eventuale secondo impianto). E’ vietata, inoltre, la clonazione terapeutica, ovvero la possibilità di creare cellule geneticamente identiche a quelle di un individuo con il solo scopo di curarne eventuali patologie (come diabete, infarto, fibrosi cistica, autismo, sclerosi multipla, morbo di Parkinson, alcune forme di cancro, osteoporosi, lesioni del midollo spinale, ictus, sclerosi laterale amiotrofica, Alzheimer). Le stime parlano di 10 milioni di persone curabili con le staminali. L’ipocrisia sta nel fatto che la ricerca condotta su embrioni importati da paesi esteri è perfettamente legale.
     – norme sui limiti all’accesso alla procreazione medicalmente assistita
Per sottoporsi alle tecniche di fecondazione assistita i medici devono aver scoperto con certezza le cause della sterilità (in caso contrario si rimane sterili e senza aiuto medico) e le coppie devono aver seguito qualsiasi altro possibile metodo di guarigione. Le coppie non sterili ma portatrici di handicap genetici non possono accedere alla PMA. Inoltre possono essere fecondati solo 3 ovociti e tutti e 3 devono essere impiantati. Nel caso di fallimento la donna deve sottoporsi a una nuova stimolazione (per produrre altri ovociti che avrebbero potuto esserle estratti durante il primo ciclo) e ad un nuovo impianto triplice. Le cellule, una volta fecondate, devono essere impiantate anche se portatrici di malattie genetiche. Alla donna viene lasciata la possibilità di abortire (una, due o tre volte nello stesso ciclo di impianto) nel caso non voglia portare a termine la gravidanza di un feto malformato.
      – le norme su finalità, diritti, soggetti coinvolti
Secondo le direttive legislative l’embrione, già all’inizio del suo sviluppo (zigote, ovvero cellula singola), gode degli stessi diritti della persona. Il diritto alla salute della madre, dunque, viene subordinato al diritto all’integrità fisica dell’embrione. Questo provvedimento è tutt’ora in contrasto con il diritto all’aborto, con il ricorso alla pillola del giorno dopo e con il codice civile italiano che riconosce la titolarità di diritti e doveri solo al momento della nascita.
       – il divieto di fecondazione eterologa
E’ vietato ricorrere a gameti provenienti da individui esterni alla coppia. La legge, pertanto, impedisce di avere un figlio alle coppie in cui uno dei due o entrambi i membri siano sterili. Gli esclusi potrebbero essere persone nate sterili ma anche persone che lo sono diventate a seguito di interventi chirurgici o trattamenti antitumorali, così come i portatori di gravi malattie trasmissibili.
Il referendum è risultato nullo perché il quorum (50% più 1) non è stato raggiunto. I votanti sono stati il 25,9% degli aventi diritto; di questi una percentuale tra il 77 e l’88% ha votato per l’abrogazione di tutti e quattro i punti. Perché la richiesta di un referendum abrogativo possa essere reiterata è necessario il decorso di un periodo pari a cinque anni. Ne mancano ancora due.

Valeria Carlot

Valeria.carlo@sconfinare.net


“Nel mondo siamo conosciuti anche per qualcosa di negativo…

Quelle che voi chiamate piaghe… Una terribile, e lei sa a cosa mi riferisco: L’Etna, il vulcano, ma è una bellezza naturale… Ma ce ne un’altra grave che nessuno riesce a risolvere, lei mi ha già capito… La Siccità… la terra brucia e sicca, una brutta cosa… Ma è la natura… e non ci possiamo fare niente…

Ma dove possiamo fare e non facciamo, perché in buona sostanza, purtroppo non è la natura ma l’uomo… dov’è? È nella terza di queste piaghe che veramente diffama la Sicilia e in patticolare Palemmo agli occhi del mondo… ehh… lei ha già capito, è inutile che io gli lo dica… mi veggogno a dillo… è il traffico!!! Troppe macchine! è un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici famigghia contro famigghia, troppe macchine!”

Così parlava della sua Sicilia lo “zio avvocato”, il personaggio uscito dalla penna di Cerami e Benigni per il film Johnny Stecchino.

Entro in Sicilia nel modo migliore: sorvolandola. La scorgo in tutto il suo splendore mentre l’ Etna comincia a riempire la scena senza sembrare per niente una piaga. Vedo gli stessi orti, frutteti, vigneti solcati dalla lava, che Piovene aveva visto nel suo Viaggio in Italia cinquanta anni fa. Le cose saranno cambiate?

Conosco la Sicilia attraverso il suo traffico, la piaga delle piaghe. Il traffico che ci porta a Catania e che ci accompagna per tutta la città. Anche l’ Etna non ti lascia mai e ti intimidisce. Ti guarda dalla via Etnea, la Broadway del mezzogiorno, con lo sguardo dei Ciclopi che ancora là sotto lavorano alla forgiatura delle saette di Zeus. Catania accoglie il freddo nordico nel suo vortice di colori e voci esagerate a cui presto mi abituo con piacere. Accompagnato dai tre siciliani (ma precisiamolo pure che due di loro, pur essendo immigrati intranazionali, non hanno perso un pizzico di sicilianità!) il mio battesimo avviene con il caffè più entusiasmante di tutta la vita: una crema che è ancora più piacevole non zuccherata.

Seguendo i filari di aranci ci muoviamo verso la costa tirrenica, verso il panorama delle isole Eolie.

Si deve dare una certa ragione al geografo arabo
Idrisi quando scrive che “non esiste terra né paese più bello ed emozionante di Milazzo”. Vi si respirano tutti i popoli che in questa cittadina hanno lasciato traccia: greci, romani, arabi e tedeschi. Il castello, con le sue sette cinte murarie di altrettante epoche, domina sul mare; si vedono le Eolie là a sinistra e Capo Milazzo ci abbraccia a destra, con i suoi profumi di erica, mirto e ginestre. Febbraio non ci concede il piacere di un bagno salato. L’ acqua è ancora troppo fredda e mossa. Allora mi accontento di riempirmi i polmoni con il vento del sud. Il mare, in controluce, prende il colore del peltro.

A Milazzo si può conoscere chi investe la propria vita nella lotta alla piaga che lo “zio” evita di nominare. Riccardo Orioles fa parte del movimento antimafia da sempre. Comincia negli anni settanta, lavorando nelle radio libere e nei giornali locali. Con Giuseppe Fava, ucciso una sera del 1984,  fonda il mensile “I Siciliani”, coraggioso e deciso nei toni, si espone a molti rischi. Malgrado le difficoltà, Riccardo continua nel suo importante lavoro di informazione trasparente: pubblica periodicamente la “Catena di San Libero”, alla quale vi invito ad iscrivervi per supportare il lavoro di un grande giornalista che della controinformazione in rete ha fatto il suo punto di forza, una persona che ha mantenuto lo spessore delle sue scelte e non si è abbassato agli sfavillii dei grandi media nazionali.

Messina è rimasta un vivaio di medici. In prossimità della facoltà di medicina, è tutto un formicaio di camici bianchi. Ho la fortuna di seguire una lezione in questa facoltà, tristemente famosa per aver cominciato il tango dello scandalo dei quiz di ammissione di due anni fa. Vedo i volti dei raccomandati, gli stessi che giravano in tivù, e penso che i messinesi non potranno più brillare nella professione più classica.

Dalla casa in cui passiamo la notte distinguo le luci della costa calabrese e immagino il ponte sullo stretto e i treni che vi sfrecciano sopra e che raggiungono velocemente l’ Italia continentale e provo a farmi spiegare da qualcuno quale sarebbe la differenza tra la Sicilia con il ponte e la Sicilia senza.

Il giorno successivo, il treno è in orario e non ci sono particolari problemi a raggiungere velocemente l’ altra sponda.

La sensazione di essere stato in mezzo a gente che mi pare di aver sempre conosciuto accompagnerà per sempre i ricordi della mia prima esperienza siciliana. Il treno saltella e mi concilia il sonno.

Alessandro Battiston

schlagstein@gmail.com

“Noi siamo qui, oggi, per affermare il fatto che l’università è il luogo dove si impara il pensiero critico, dove si cerca di capire quello che ci circonda”. Con queste parole il Magnifico Rettore Peroni ha motivato l’assemblea di Ateneo del 30 ottobre, in Piazzale Europa, convocata per discutere della legge 133 e dei tagli all’università. Il mese che ci siamo lasciati alle spalle, in effetti, è stato carico di eventi importanti, dalla crisi economica alla riforma scolastica, fino alle imminenti elezioni americane. Un mese impegnativo per chiunque. In questa situazione, Sconfinare ritorna dopo la pausa estiva, per dare ancora una volta voce a tutti gli studenti del Sid. In questo contesto, possiamo fare nostre le parole del Magnifico Rettore: Sconfinare non è, non deve essere, un “giornalino”; esso è piuttosto un tentativo che noi studenti facciamo per capire e interpretare il mondo in cui viviamo. Può essere un punto di vista imperfetto, può essere soggettivo; ma è pur sempre un mezzo per dare voce ai nostri pensieri, per creare dibattiti, confronti, anche all’esterno, per esercitare quel “pensiero critico” che l’università deve dare come prima cosa, e che ultimamente è seriamente messo in pericolo. E’ quindi importante, ancora più di prima, che tutti partecipino, che tutti coloro i quali hanno qualcosa da dire la dicano, senza timore; la forza di Sconfinare sono proprio i suoi lettori, perché è da essi che prende linfa e idee ogni numero. E’ un giornale fatto DA studenti PER gli studenti. Certamente poi cerca di diffondersi nel territorio di Gorizia e Nova Gorica, e anche oltre, e in questo aspetto sta avendo un sempre maggiore successo; ma la base su cui poggia è il corpo studentesco. Senza la partecipazione massiccia del Sid nel suo insieme, perde il suo significato. E’ un compito impegnativo, ma ricco di soddisfazioni; ed è sempre più necessario oggi, se non altro come atto di “Resistenza”. Non potremo fare molto contro chi ci vuole togliere la possibilità di studiare, capire e ragionare liberamente, ma è comunque un segno, la cui forza dipende dalla partecipazione di tutti. Per dimostrare al mondo fuori dall’Università che siamo altro rispetto a facinorosi svogliati, come i media hanno descritto gli studenti universitari manifestanti in questi ultimi giorni. Buona lettura!

Giovanni Collot

giovanni.collot@sconfinare.net

Gli studenti di Trieste contro la 133

Mercoledì 22 ottobre, l’aula Felice Venezian non riesce ad accogliere tutti gli studenti che sono accorsi per l’assemblea. Qualcuno propone di spostarsi in aula magna: un fiume di giovani inonda i corridoi e le scale, e continua a straripare anche nella sala più grande. La soluzione migliore è spostarsi in Piazzale Europa. Finalmente si respira, e si aspetta che casse e microfono siano pronti per diffondere gli interventi degli oratori. L’assemblea è cominciata bene: le migliaia di persone fra studenti, docenti e personale tecnico sembrano testimoniare una preoccupazione diffusa per il futuro dell’Università, di fronte alla legge 133. Il Rettore Peroni chiarisce subito il suo punto di vista: la 133 mette a rischio il regime pubblico della formazione universitaria garantito costituzionalmente. Per concludere invita tutti a “fare apostolato della Costituzione”, facendomi rabbrividire nonostante il clima tiepido. Dopodiché, il testo di legge viene letto e discusso nel corso dell’assemblea. Sbaglia, quindi, chi afferma che gli studenti non sono informati sull’oggetto delle loro proteste. Conclusa la lettura degli articoli contestati, il microfono viene aperto a chi vuole intervenire. A questo punto, inizio a provare un senso di delusione: gli interventi più applauditi sono quelli più infarciti di slogan, quelli che incalzano la protesta senza proporre niente di concreto. Mi aspettavo qualcosa di più da migliaia di studenti universitari. La maggior parte dei discorsi sono vuote parole d’ordine lanciate sull’onda dell’emozione per infervorare la platea (che comunque non dovete immaginare come un’orda scatenata: tutti molto composti nel loro entusiasmo). Appena un ragazzo di Azione universitaria prende il microfono, partono i fischi a smentire quello che è stato affermato precedentemente, cioè che la protesta va oltre i partiti. Lo studente di destra obietta che l’Università italiana è una fonte di enormi sprechi, e che era ora che qualcuno li tagliasse. E dopo che lo stesso batte in ritirata, nessuno che replichi seriamente a ciò che ha detto, semplicemente lo si ignora. E allora gli rispondo io adesso: i problemi dell’Università italiana sono senz’altro numerosi; dagli sprechi burocratici all’assenza di meritocrazia, dalla cattiva gestione finanziaria al mantenimento di corsi privi di studenti. Ma il modo di migliorare le cose non è certo questo taglio pesante dei fondi ad un’istituzione il cui regime pubblico è garantito dalla Costituzione, e che pone le basi della società civile, di oggi ma soprattutto di domani. L’istruzione ha un ruolo troppo delicato nella vita di un Paese per essere trattata con criteri puramente economici, ci vuole molto più impegno per risolvere la situazione. Secondo il Rettore, l’Università di Trieste, perdendo circa 22 milioni di euro nei prossimi 5 anni, rischierà la chiusura, nonostante il bilancio consuntivo del 2007 sia stato concluso in attivo. Purtroppo, nell’Italia di oggi, procedere con vere riforme, che vadano a sanare i meccanismi malati dell’istruzione pubblica, sembra impossibile: meglio un provvedimento drastico e superficiale che scateni il conflitto, da usare come pretesto per screditare il dissenso.

Qualche giorno dopo, sabato 25 ottobre, mi reco alla manifestazione degli studenti delle Superiori a cui si è deciso di unire la protesta dell’Università. Guardandomi un po’ intorno in Piazza Goldoni, punto di partenza del corteo, noto subito l’esiguità degli universitari, decimati dalle partenze del weekend: bella prova di impegno e coesione. Ma la sorpresa più amara arriva alla fine, in Piazza Unità: dopo un corteo festoso e tranquillo, che raccoglie addirittura gli applausi della gente che assiste ai margini, la protesta si esaurisce. Degli universitari che hanno guidato il corteo non c’è più traccia, e dopo qualche minuto la piazza si svuota, per lasciare campo libero a qualche camioncino di studenti delle superiori completo di casse che sparano techno a tutto volume ragazzini mezzi nudi che ballano con le orecchie incollate agli amplificatori. C’è anche qualche rappresentante dei centri sociali che cerca di dirigere la protesta verso il molo IV, dove si era svolta l’assemblea dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), nonostante i sindaci non ci siano più e nonostante non ci sia alcuna autorizzazione.

Io credo in questa protesta e nella sua continuazione fino a che il Governo non si deciderà ad eliminare i tagli all’Università, credo nell’utilità delle manifestazioni di piazza per far sentire il dissenso collettivo in maniera efficace; ma ci credo quando, a fare da base, c’è una consapevolezza ragionata degli obiettivi e dei mezzi con cui raggiungerli, e non una generica ed emozionale contrarietà. Altrimenti, i movimenti perdono senso, forza, e si smarriscono per strada: ci si ritrova come sabato scorso, in una piazza semi vuota, a chiedersi “Cosa ci faccio qui?”, e intanto quello per cui si manifestava rimane tale e quale, pian piano viene dimenticato, i media perdono interesse, e tutto va in malora, come sempre.

Athena Tomasini

Athena.tomasini@sconfinare.net

Si è conclusa il 31 ottobre la quinta edizione del Festival Internazionale del Cinema di Roma, con grande partecipazione di pubblico e ovviamente della stampa. Ho provato ad accedere alla struttura dell’Auditorium del Parco della Musica, il luogo con il maggior numero di sale e di proiezioni, quello con i tappeti rossi e la gente urlante ad acclamare attori e attrici ma anche con i prezzi più alti (alcuni film costavano anche 20 euro secondo il programma) Ma non mi è andata bene: la prima volta dopo una fila di un’ora i posti erano già esauriti, la seconda era una proiezione riservata ai soli giornalisti (ho provato a passare come giornalista di Sconfinare, ma come si può immaginare non mi hanno fatto entrare). Un po’ sconsolata dalle esperienze, stavo quasi abbandonando l’idea di godermi qualche buon film, ma poi ho scoperto la Casa del Cinema: un edificio nel parco di Villa Borghese inaugurato a tale uso nel 2005 e che sotto la direzione di Felice Laudario propone rassegne cinematografiche con ingresso gratuito. Nell’ambito del Festival, alla Casa del Cinema sono stati proiettati i film della categoria La Fabbrica dei Progetti, comprendenti cioè le opere prime di alcuni registi. Tra quelli che ho potuto vedere, da segnalare è “Astropia”, film islandese di Gunnar Bjorn Gudmundsson, in cui una giovane donna dell’alta società si ritrova improvvisamente povera e per guadagnarsi da vivere inizia a lavorare in un negozio di fumetti e giochi di ruolo, mondo del quale è completamente ignara. Col tempo imparerà a conoscerlo e nel frattempo a maturare, imparando a guardare oltre le apparenze e nonostante un ex fidanzato intrigante. Vincitore della categoria è risultato “Bird Can’t Fly”, di produzione sudafricana e irlandese, premiato probabilmente per l’intensità dei personaggi e la bravura della protagonista (Barbara Hershey), anche se a tratti è un po’ pesante. Nel film, una donna di nome Melody, dopo la morte improvvisa della figlia, fa ritorno in Sudafrica peri suoi funerali e lì ritrova il suo passato ma anche un nipote di cui non sapeva l’esistenza. Altra iniziativa interessante, sempre alla Casa del Cinema durante il festival è stata la giornata dedicata alla Mosfilm, una casa di produzione sovietica e che ancora oggi, seppur con minore successo, è attiva. Sono stai proiettati 4 film: “L’Impero Scomparso” (2007, l’unico che non ho visto), “Quando Volano le Cicogne” (1957, vincitore del Festival di Cannes, molto bravi gli interpreti), “Cinque Serate”(1978, storia d’amore dopo 18 anni di lontananza) e “The Inner Circle” o “Il Proiezionista” (1991, del regista Andrej Konchalovskij, quest’ultimo molto bello in quanto racconta la storia di un uomo devotissimo a Stalin e alla causa comunista, ma che proprio in nome di essa perde il suo grande amore, e nonostante ciò non rinnega le sue convinzioni. Non ho partecipato quindi al Festival ufficiale, è vero, ma sono soddisfatta di quello che ho visto: ne valeva assolutamente la pena!

Lisa Cuccato

Lisa.cuccato@sconfinare.net

con Natalie Morales, Matt Keeslar

Tratto dall’omonima serie a fumetti di Xavier Grillo-Marxuach, the Middleman è una serie televisiva che segue le inverosimili avventure di Wendy, una giovane artista bloccata in un lavoro precario che vive in subaffitto illegale con la sua migliore amica Lacey, una vegetariana militante. La sua routine viene interrotta dall’attacco di un orrendo mutante, dopo il quale Wendy si trova ad essere reclutata da una agenzia dedita a combattere il Male. In segreto, infatti, il modo brulica di alieni, vampiri, scienziati pazzi e mostri assortiti, e qualcuno deve occuparsene. Insieme al suo misterioso capo, noto solo con il titolo ereditario di Middleman, e ad una robot-bibliotecaria sorprendentemente acida; Wendy inizia un lungo addestramento sul campo, affrontando le minacce più paradossali: zombie divoratori di trote, gorilla mafiosi, tube maledette, collegiali fantasma, universi paralleli e luchadores assetati di sangue. Sfortunatamente tali avventure continuano solo per 12 puntate, dato che la serie è stata sospesa, ma si tratta comunque di dodici puntate ricolme di pura e sofisticata intelligenza. Gli attori sono abili, i dialoghi frizzanti e talmente pieni di arguzie che spesso mi sono trovato a dover riguardare la stessa scena più volte, avendo perso una battuta mentre ero impegnato a ridere per quella precedente. Malgrado i personaggi siano potenzialmente stereotipati gli autori riescono a rendere ognuno di loro credibile, oltre che godibile. Scaricate illegalmente questa serie, perchè è troppo buona per essere trasmessa in Italia.

Luca Nicolai

Luca.nicolai@sconfinare.net

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